Frank Zappa: una discografia “giacobina”

di Marco Maurizi
 
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Una discografia “giacobina” quella di Zappa che ha messo sottosopra la musica del XX secolo così come Marx aveva messo sulla testa la dialettica di Hegel. Una discografia giacobina quella presentata qui, perché volutamente di parte, estremista. Una discografia che vuole illustrare l’opera di Zappa attraverso i suoi ‘estremi’ e renderne la profondità a partire dalle linee essenziali. Una discografia che vuole al tempo stesso essere un’introduzione alla Zappologia, perché una delle grandi qualità dell’opera di Zappa è quella di presupporre un ascolto attivo che muove, spinge, costringe alla decodificazione, all’analisi, all’interpretazione. Non si può amare veramente la musica di Zappa senza diventare ipso facto zappologi: l’opera di Zappa è refrattaria alla contemplazione come il diavolo all’acqua santa.
Niente potrebbe dimostrarlo meglio dell’esordio zappiano, il cui titolo Freak Out! (Luglio 1966) è un esplicito invito alla liberazione dell’intelligenza, all’emancipazione dell’immaginazione e alla coltivazione dell’istinto. Il gioco e il tour de force, l’ironia e il cinismo, l’avanguardia, il blues, un doppio crinale attraversa tutta l’opera di Zappa e già in questo esordio (il primo disco doppio della storia del rock!) è evidente la divisione netta tra canzoni dalla struttura più o meno rigida e un’intera facciata di mostruosità sonore informali. Tra il ‘modernismo’ radicale di Lumpy Gravy (Dicembre 1967) - un collage che centrifuga generi musicali, rumori e dialoghi assurdi - e il ‘neoclassicismo’ demenziale di Cruising With Ruben & The Jets (Novembre 1968) - che si cala nella canzone doo-wop per offrirne una lettura straniante (una versione sgangherata del Pulcinella di Stravinsky insomma...) - è forse We're Only In It For The Money (Febbraio 1968) che compendia al meglio l’universo sonoro di Zappa e delle Mothers Of Invention. Sia dal punto di vista della forma (collagismo, canzoncine di ‘cretina semplicità’, bruitismo, voci alterate, siparietti psichedelici, tempi dispari, passaggi atonali per piccola orchestra) che del contenuto (una critica feroce dell’ideologia hippy che stava annacquando la rivolta giovanile e la tensione sociale nell’estate dell’amore), Zappa gioca a spiazzare l’ascoltatore, a renderlo consapevole dei processi mostruosi che si celano dietro l’apparenza delle cose [vedi la copertina di Weasels Ripped My Flesh (Agosto 1970) in cui l’uomo si squarcia la faccia con il gesto più comune: radersi]. Ma l’opera di Zappa è mostruosa, è una montagna di spazzatura perché il mondo stesso lo è. Come Adorno scriveva: “dopo Auschwitz tutta la cultura, compresa la critica urgente di essa è spazzatura”; il campo di concentramento in cui è stipata l’orchestra del film 200 Motels (Ottobre 1971) sembra dirci lo stesso. Ma sarebbe un errore considerare l’elemento ‘spiazzante’ della musica zappiana come un fine in sé, come una mera provocazione che sceglie i suoi oggetti con cinica freddezza e indifferenza. Zappa ha invece un amore sconfinato per il suono, il rumore e, soprattutto, la musica: se il suo è davvero ‘terrorismo sonoro’ - come è stato definito - mostra un tale amore per il dettaglio da risultare forse molto più pauroso e devastante quando lo si analizza, che non per la forza immediata di rottura che esplode al primo ascolto. La complessa costruzione che Zappa mette in mostra e che chiama Progetto/Oggetto comprende, infatti, non solo musiche e testi dei suoi brani, ma anche copertine, film, concerti e interviste, tutto ciò su cui Zappa è riuscito ad avere un qualche effetto ‘compositivo’. Il ritorno ossessivo di melodie in perpetua mutazione da una canzone all’altra (‘Mr. Greene Genes’, ‘Son of Mr. Greene Genes’... come i mostri nei film sci-fi a basso costo degli anni 50 che Zappa adorava), di parole, temi e immagini (Suzy Creamcheese, il cane barbone, il sofà) definiscono quella che Zappa chiama “continuità concettuale”: una trama di sensi aperta e assurda ma incredibilmente coerente che si dipana di disco in disco, di concerto in concerto. È come se tutto stesse accadendo nello stesso momento: Uncle Meat (Marzo 1969) è la colonna sonora di un film che vide la luce solo trent’anni dopo (che il ritardo abbia avuto origine da problemi economici è questione di dettaglio se si pensa che anche Ob’ dewlla ‘X’ si è manifestata "in carne e ossa" dieci anni dopo la sua prima fugace apparizione simbolica).
Zappa lavorava con ciò che aveva a disposizione, si adattava alle circostanze cercando di fare in modo che il risultato dei suoi sforzi fosse sempre una monade da cui si sprigionava il potere liberatorio di tutta la sua opera: che sia l’organico rock scarno e brutale di Just Another Band From L.A. (Marzo 1972) o  gli arrangiamenti per jazz-rock orchestra di The Grand Wazoo (Novembre 1972) non fa differenza. Ma i suoi dischi sono monadi anche perché spesso racchiudono in sé l’esperienza di un’epoca e sono difficilmente comprensibili al di fuori di tale riferimento spazio-temporale. Come Money rovesciava fin dalla copertina l’ideologia hippy, mettendo in scena contro l’idealismo disincarnato di questo (“Absolutely Free”) il corpo con le sue brutture (i “peli che crescono da ogni mio buco”: “Concentration Moon”), così Over-Nite Sensation (Settembre 1973) e Apostrophe(') (Marzo 1974) furono dei veri calci in faccia alla seriosità imbecille dell’art-rock dell’epoca che pensava di aver reso ‘adulto’ il rock colandolo in forme pseudoclassicheggianti invece che nella vecchia forma strofa-ritornello. Anche le canzoni di Zappa non sono più canzoni, ma a differenza del sinfonismo rock (Yes, ELP) non si gonfiano di vuota presunzione, piuttosto fanno esplodere la forma-canzone rendendola un ricettacolo di un’esperienza musicale in divenire in cui meticolosa progettazione e triviale casualità, riff di chitarra e svolazzi di vibrafono, volgarità documentaria e libere associazioni si fondono all’imperfezione. Non offrono un modello fasullo di linearità, coerenza e completezza: sono sghembe e traballanti, ma al tempo stesso infinitamente complesse e stratificate, gli assoli di Zappa le squarciano e le sfilacciano oltre ogni misura eppure mostrano una tessitura definita fin nelle minuzie più impensabili. Sono ‘arte’ proprio perché - a differenza dell’art rock - non pretendono di essere ‘grande’ arte. L’aspetto allucinatorio dell’arte zappiana sta in questo procedere spedito dal regno delle idee all’immondizia (come già il Parmenide di Platone insegnava), dalla sommità dello spirito alla trivialità dell’eiaculazione: quando Zappa parla di Dio, ne parla come di un signore col sigaro che sta su un sofà svolazzante nell’universo e ha relazioni promiscue con “la sua ragazza” e un “maiale magico”. La copertina di One Size Fits All (Giugno 1975) è un monumento allo sguardo infantile sul mondo, uno sguardo che non può che immaginarsi Dio come un signore con la barba e che è molto più vicino alla verità di tutta la speculazione sull’ineffabile di Dionigi Areopagita.
Zappa fu anche un grande innovatore e sperimentatore ma come tutti i veri innovatori innovò con incredibile naturalezza, servendosi della tecnica come fosse un prolungamento del suo braccio e non il contrario. Dal punto di vista della tecnica di registrazione - che già con i Beatles di Sgt. Pepper era diventata parte integrante del processo compositivo - ci ha regalato la ‘xenocronia’ (strana sincronizzazione) a partire da Zoot Allures (Ottobre 1976), Sheik Yerbouti (Marzo 1979) e Joe's Garage (Novembre 1979). Si tratta di un processo di sovrapposizione di tracce registrate in occasioni, tempi, tonalità e velocità differenti che costituiscono qualcosa di assolutamente nuovo ed inaudito. Ma anche prima Zappa aveva fatto in modo di trascrivere (o far trascrivere) i propri assoli in modo da poterli arrangiare e orchestrare, intuendo e abbozzando in modo pratico-artigianale ciò che solo in seguito teorizzò e realizzò grazie al progresso tecnico. Così come Webern - spinto da un’esigenza che il comporre stesso gli imponeva - cominciò a segnarsi le note che utilizzava per evitare di ripeterle prima che Schönberg teorizzasse e portasse a compimento questo procedimento ‘inventando’ la tecnica dodecafonica. I romantici avevano ragione: esiste il genio. Ma non è tale perché crea, quanto perché capisce prima degli altri.
Shut Up 'N' Play Yer Guitar (Maggio 1981) è costruito tutto su assoli di chitarra ed è al tempo stesso un monumento alla tecnica chitarristica zappiana. Zappa non era un virtuoso dello strumento ma aveva, forse proprio per questo, la capacità di rendere ogni assolo un momento di effettivo confronto con lo strumento, piuttosto che un modo di mettere in mostra la propria abilità tecnica (che comunque era notevole). Di impostazione prevalentemente blues, il suo fraseggio nervoso è riconoscibilissimo ma sempre imprevdibile: ‘grumi’ di note, scale modali e orientaleggianti, sbavature sui registri bassi che sottolineano la matericità del suono (come gli effetti di chorus e wah-wah che non sono mai estetizzante e decorativi). Zappa organizza da compositore lo spazio dell’assolo senza perdere mai l’intensità del chitarrista.
Quando venne prodotto il synclavier - un’apparecchiatura MIDI capace di eseguire partiture - Zappa se ne impossessò, lieto di poter finalmente ascoltare la propria musica senza avere a che fare con “gli ego del cazzo” dei musicisti. Anche qui la sua capacità di portare la tecnica oltre se stessa è incredibile. Invece di utilizzare lo strumento come mero sostituto dell’elemento umano, Zappa lo spinge verso i suoi limiti di macchina calcolatrice, portandolo non ad imitare l’espressività umana, ma a produrre una propria, paradossale: il cigolio della macchina a pieno regime. Se in Jazz From Hell (Novembre 1986) questo processo è appena agli inizi e si avverte ancora una certa piattezza nella sarabanda accecante di questa musica ‘impossibile’, in Civilization, Phaze III (Dicembre 1994) la profondità prospettica, l’articolazione e la ricchezza nelle dinamiche delle partiture è cresciuta in modo esponenziale.
Nonostante quanto si dica in giro, anche fra zappiani, Zappa fu anche un grande compositore di musica ‘colta’ (nessun compositore accademico d’oggi offre la stessa capacità espressiva senza fare vigliacche concessioni al pubblico o atteggiarsi in patetiche pose pensose). Il problema è che questo aspetto specifico della sua attività non può essere separato dagli altri perché tutta la sua opera è una spietata riflessione sulla mercificazione ed espropriazione capitalistica della musica: ivi compresa la musica d’avanguardia. Anche se amava Penderecky ed essere diretto da Boulez in The Perfect Stranger (Agosto 1984) può avergli fatto piacere, lo scopo ultimo e la profonda raison d’etre della sua musica non era quello di entrare nel Pantheon della cultura, quanto piuttosto di buttarlo giù a colpi di chitarra e rutti. Non è un caso se ancora tra il 1992 e il 1993 escano sia Playground Psychotics (Ottobre 1992) - che è una sorta di gigantesco documentario sonoro e musicale della vita on the road con la sua band nei primi anni ’70 - che The Yellow Shark (Dicembre 1993) in cui le sue partiture trovano finalmente un’esecuzione fedele e partecipe da parte dell’Ensemble Modern. Allo stesso modo, soltanto dopo essere sprofondati nell’abisso della sua arte è possibile capire perché Thing-Fish (Novembre 1984) è un capolavoro, come a prima vista non sembra. Questo disco mette alla prova l’ascoltatore, anche il fan incallito, più di ogni altro: è un vero test. Ma ogni precedente disco di Zappa lo era. La musica di Zappa è l’unico test di QI scientificamente valido, perché mette fuori corso il concetto stesso di QI. Niente è stupido o intelligente in sé. Ogni cosa lo è in relazione alla capacità critica del soggetto che si interroga sulla realtà. Le minuzie della sua opera sono un invito alla decifrazione del mondo e non l’infinito gioco con se stessa dell’arte da museo o da concerto. L’orrendo Thing-Fish rivela la verità sul museo e sulla sala da concerto: la musica dolce che ti blandisce dal palco è piscio e dietro ogni bella forma c’è l’abiezione e la mutilazione.
Zappa era tutto questo in modo unico e, forse, irripetibile. La sua grandezza stava nell’intero e non nelle singole parti anche se le singole parti sono costruite in modo tanto accurato che solo da esse si sprigiona la forza dell’intero. Non quindi come in John Cage, dove l’idea astratta domina ogni cosa e rende la musica mero esempio di una ‘visione del mondo’. Nella musica di Zappa non c’è spazio per una Weltanschauung, nemmeno per la sua. Essa offre piuttosto uno spazio di documentazione del mondo irreale e assurdo in cui un soggetto disgregato ma vitale cerca ancora caparbiamente di trovare espressione e gioia di vivere.

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