Una discografia “giacobina” quella di Zappa che ha messo sottosopra la
musica del XX secolo così come Marx aveva messo sulla testa la dialettica
di Hegel. Una
discografia giacobina quella presentata qui, perché volutamente di parte, estremista. Una discografia
che vuole illustrare l’opera di Zappa attraverso i suoi ‘estremi’ e renderne la
profondità a partire dalle linee essenziali. Una discografia che vuole al
tempo stesso essere un’introduzione alla Zappologia, perché una delle grandi
qualità dell’opera di Zappa è quella di presupporre un ascolto attivo che muove, spinge, costringe alla
decodificazione, all’analisi, all’interpretazione. Non si può amare veramente
la musica di Zappa senza diventare ipso
facto zappologi: l’opera di Zappa è refrattaria alla contemplazione come il
diavolo all’acqua santa.
Niente
potrebbe dimostrarlo meglio dell’esordio zappiano, il cui titolo Freak Out! (Luglio 1966) è un esplicito invito alla liberazione
dell’intelligenza, all’emancipazione dell’immaginazione e alla coltivazione
dell’istinto. Il gioco e il tour de force, l’ironia e il cinismo,
l’avanguardia, il blues, un doppio crinale attraversa tutta l’opera di Zappa e
già in questo esordio (il primo disco doppio della storia del rock!) è evidente
la divisione netta tra canzoni dalla struttura più o meno rigida e un’intera
facciata di mostruosità sonore informali. Tra il ‘modernismo’ radicale di Lumpy Gravy (Dicembre 1967) - un collage
che centrifuga generi musicali, rumori e dialoghi assurdi - e il ‘neoclassicismo’
demenziale di Cruising
With Ruben & The Jets (Novembre 1968) - che si cala nella canzone doo-wop per offrirne una
lettura straniante (una versione sgangherata del Pulcinella di Stravinsky insomma...) - è forse We're Only In It For The Money (Febbraio 1968) che compendia
al meglio l’universo sonoro di Zappa e delle Mothers Of Invention. Sia dal punto di vista della
forma (collagismo, canzoncine di ‘cretina semplicità’, bruitismo, voci
alterate, siparietti psichedelici, tempi dispari, passaggi atonali per piccola
orchestra) che del contenuto (una critica
feroce dell’ideologia hippy che stava annacquando la rivolta giovanile e la
tensione sociale nell’estate dell’amore), Zappa gioca a spiazzare
l’ascoltatore, a renderlo consapevole dei processi mostruosi che si celano
dietro l’apparenza delle cose [vedi la copertina di Weasels Ripped My Flesh (Agosto 1970) in cui l’uomo si squarcia la faccia con il gesto più comune: radersi]. Ma
l’opera di Zappa è mostruosa, è una montagna di spazzatura perché il mondo
stesso lo è. Come Adorno scriveva: “dopo Auschwitz tutta la cultura,
compresa la critica urgente di essa è spazzatura”; il campo di concentramento
in cui è stipata l’orchestra del film 200 Motels (Ottobre 1971) sembra
dirci lo stesso. Ma sarebbe un errore considerare l’elemento ‘spiazzante’ della
musica zappiana come un fine in sé, come una mera provocazione che sceglie i
suoi oggetti con cinica freddezza e indifferenza. Zappa ha invece un amore
sconfinato per il suono, il rumore e, soprattutto, la musica: se il suo è davvero ‘terrorismo sonoro’ - come è stato
definito - mostra un tale amore per il dettaglio da risultare forse molto più
pauroso e devastante quando lo si analizza, che non per la forza immediata di
rottura che esplode al primo ascolto. La complessa costruzione che Zappa mette
in mostra e che chiama Progetto/Oggetto comprende, infatti, non solo musiche e
testi dei suoi brani, ma anche copertine, film, concerti e interviste, tutto
ciò su cui Zappa è riuscito ad avere un qualche effetto ‘compositivo’. Il
ritorno ossessivo di melodie in perpetua mutazione da una canzone all’altra
(‘Mr. Greene Genes’, ‘Son of Mr. Greene Genes’... come i mostri nei film sci-fi a basso costo degli anni 50 che
Zappa adorava), di parole, temi e immagini (Suzy Creamcheese, il cane barbone, il sofà)
definiscono quella che Zappa chiama “continuità concettuale”: una trama di
sensi aperta e assurda ma incredibilmente coerente che si dipana di disco in
disco, di concerto in concerto. È come se
tutto stesse accadendo nello stesso momento: Uncle Meat (Marzo 1969) è la
colonna sonora di un film che vide la luce solo trent’anni dopo (che il ritardo
abbia avuto origine da problemi economici è questione di dettaglio se si pensa
che anche Ob’ dewlla ‘X’ si è manifestata "in carne e ossa" dieci anni dopo la sua prima
fugace apparizione simbolica).
Zappa
lavorava con ciò che aveva a disposizione, si adattava alle circostanze
cercando di fare in modo che il risultato dei suoi sforzi fosse sempre una
monade da cui si sprigionava il potere liberatorio di tutta la sua opera: che
sia l’organico rock scarno e brutale di Just Another Band From L.A. (Marzo 1972) o gli arrangiamenti per jazz-rock orchestra di The Grand Wazoo (Novembre 1972) non fa differenza.
Ma i suoi dischi sono monadi anche perché spesso racchiudono in sé l’esperienza
di un’epoca e sono difficilmente comprensibili al di fuori di tale riferimento spazio-temporale. Come Money rovesciava
fin dalla copertina l’ideologia hippy, mettendo in scena contro l’idealismo
disincarnato di questo (“Absolutely Free”) il corpo con le sue brutture
(i “peli che crescono da ogni mio buco”: “Concentration Moon”), così Over-Nite Sensation (Settembre 1973) e Apostrophe(') (Marzo 1974) furono dei veri calci in faccia alla seriosità imbecille dell’art-rock dell’epoca
che pensava di aver reso ‘adulto’ il rock colandolo in forme
pseudoclassicheggianti invece che nella vecchia forma strofa-ritornello. Anche
le canzoni di Zappa non sono più canzoni, ma a differenza del sinfonismo rock
(Yes, ELP) non si gonfiano di vuota
presunzione, piuttosto fanno esplodere la forma-canzone rendendola un
ricettacolo di un’esperienza musicale in
divenire in cui meticolosa progettazione e triviale casualità, riff di
chitarra e svolazzi di vibrafono, volgarità documentaria e libere associazioni
si fondono all’imperfezione. Non
offrono un modello fasullo di linearità, coerenza e completezza: sono sghembe e
traballanti, ma al tempo stesso infinitamente complesse e stratificate, gli
assoli di Zappa le squarciano e le sfilacciano oltre ogni misura eppure
mostrano una tessitura definita fin nelle minuzie più impensabili. Sono ‘arte’
proprio perché - a differenza dell’art rock - non pretendono di essere ‘grande’
arte. L’aspetto allucinatorio dell’arte zappiana sta in questo procedere spedito
dal regno delle idee all’immondizia (come già il Parmenide di Platone insegnava), dalla sommità dello spirito alla
trivialità dell’eiaculazione: quando Zappa parla di Dio, ne parla come di un signore
col sigaro che sta su un sofà svolazzante nell’universo e ha relazioni
promiscue con “la sua ragazza” e un “maiale magico”. La copertina di One Size Fits
All (Giugno 1975) è un monumento
allo sguardo infantile sul mondo, uno sguardo che non può che immaginarsi Dio
come un signore con la barba e che è molto più vicino alla verità di tutta la
speculazione sull’ineffabile di Dionigi Areopagita.
Zappa fu
anche un grande innovatore e sperimentatore ma come tutti i veri innovatori
innovò con incredibile naturalezza, servendosi della tecnica come fosse un
prolungamento del suo braccio e non il contrario. Dal punto di vista della
tecnica di registrazione - che già con i Beatles di Sgt.
Pepper era diventata parte integrante del processo
compositivo - ci ha regalato la ‘xenocronia’ (strana sincronizzazione) a
partire da Zoot
Allures (Ottobre 1976), Sheik Yerbouti (Marzo 1979) e Joe's Garage (Novembre 1979). Si tratta
di un processo di sovrapposizione di tracce registrate in occasioni, tempi,
tonalità e velocità differenti che costituiscono qualcosa di assolutamente
nuovo ed inaudito. Ma anche prima Zappa aveva fatto in modo di trascrivere (o
far trascrivere) i propri assoli in modo da poterli arrangiare e orchestrare,
intuendo e abbozzando in modo pratico-artigianale ciò che solo in seguito
teorizzò e realizzò grazie al progresso tecnico. Così come Webern - spinto da un’esigenza che il comporre stesso
gli imponeva - cominciò a segnarsi le note che utilizzava per evitare di ripeterle
prima che Schönberg teorizzasse e portasse a compimento questo procedimento ‘inventando’ la tecnica dodecafonica.
I romantici avevano ragione: esiste il genio. Ma non è tale perché crea, quanto perché capisce prima degli
altri.
Shut Up 'N' Play Yer Guitar (Maggio 1981) è costruito
tutto su assoli di chitarra ed è al tempo stesso un monumento alla tecnica
chitarristica zappiana. Zappa non era un virtuoso dello strumento ma aveva,
forse proprio per questo, la capacità di rendere ogni assolo un momento di
effettivo confronto con lo strumento, piuttosto che un modo di mettere in
mostra la propria abilità tecnica (che comunque era notevole). Di impostazione
prevalentemente blues, il suo fraseggio
nervoso è riconoscibilissimo ma sempre imprevdibile: ‘grumi’ di note, scale modali
e orientaleggianti, sbavature sui registri bassi che sottolineano la matericità
del suono (come gli effetti di chorus e wah-wah che non sono mai estetizzante e
decorativi). Zappa organizza da compositore lo spazio dell’assolo senza perdere
mai l’intensità del chitarrista.
Quando venne
prodotto il synclavier - un’apparecchiatura MIDI capace di eseguire partiture -
Zappa se ne impossessò, lieto di poter finalmente ascoltare la propria musica
senza avere a che fare con “gli ego del cazzo” dei musicisti. Anche qui la sua
capacità di portare la tecnica oltre se stessa è incredibile. Invece di utilizzare
lo strumento come mero sostituto dell’elemento umano, Zappa lo spinge verso i
suoi limiti di macchina calcolatrice, portandolo non ad imitare l’espressività
umana, ma a produrre una propria, paradossale: il cigolio della macchina a
pieno regime. Se in Jazz From Hell (Novembre 1986) questo
processo è appena agli inizi e si avverte ancora una certa piattezza nella
sarabanda accecante di questa musica ‘impossibile’, in Civilization, Phaze III (Dicembre 1994) la
profondità prospettica, l’articolazione e la ricchezza nelle dinamiche delle
partiture è cresciuta in modo esponenziale.
Nonostante
quanto si dica in giro, anche fra zappiani, Zappa
fu anche un grande compositore di musica ‘colta’ (nessun compositore accademico
d’oggi offre la stessa capacità espressiva senza fare vigliacche concessioni al
pubblico o atteggiarsi in patetiche pose pensose). Il problema è che questo aspetto
specifico della sua attività non può essere separato dagli altri perché tutta
la sua opera è una spietata riflessione sulla mercificazione ed
espropriazione capitalistica della musica: ivi compresa la musica
d’avanguardia. Anche se amava Penderecky ed essere diretto da Boulez in The Perfect Stranger (Agosto 1984) può avergli fatto piacere, lo scopo ultimo e la profonda raison d’etre della sua musica non era
quello di entrare nel Pantheon della cultura, quanto piuttosto di buttarlo giù
a colpi di chitarra e rutti. Non è un caso se ancora tra il 1992 e il 1993
escano sia Playground
Psychotics (Ottobre 1992) - che è una
sorta di gigantesco documentario sonoro e musicale della vita on the road con la sua band nei primi
anni ’70 - che The
Yellow Shark (Dicembre 1993) in cui le
sue partiture trovano finalmente un’esecuzione fedele e partecipe da parte
dell’Ensemble Modern. Allo stesso modo, soltanto
dopo essere sprofondati nell’abisso della sua arte è possibile capire perché Thing-Fish (Novembre 1984) è un capolavoro, come a prima vista non sembra. Questo disco mette alla
prova l’ascoltatore, anche il fan incallito, più di ogni altro: è un vero test.
Ma ogni precedente disco di Zappa lo era. La musica di Zappa è l’unico test di
QI scientificamente valido, perché mette fuori corso il concetto stesso di QI.
Niente è stupido o intelligente in sé. Ogni cosa lo è in relazione alla
capacità critica del soggetto che si interroga sulla realtà. Le minuzie della
sua opera sono un invito alla decifrazione del mondo e non l’infinito gioco con
se stessa dell’arte da museo o da concerto. L’orrendo
Thing-Fish rivela la verità sul museo e sulla
sala da concerto: la musica dolce che ti blandisce dal palco è piscio e dietro
ogni bella forma c’è l’abiezione e la mutilazione.
Zappa era
tutto questo in modo unico e, forse, irripetibile. La sua grandezza stava
nell’intero e non nelle singole parti anche se le singole parti sono costruite
in modo tanto accurato che solo da esse si sprigiona la forza dell’intero. Non
quindi come in John Cage, dove l’idea astratta domina
ogni cosa e rende la musica mero esempio di una ‘visione del mondo’. Nella
musica di Zappa non c’è spazio per una Weltanschauung,
nemmeno per la sua. Essa offre piuttosto uno spazio di documentazione del mondo
irreale e assurdo in cui un soggetto disgregato ma vitale cerca ancora
caparbiamente di trovare espressione e gioia di vivere.
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