Al di qua della natura. Una risposta alle critiche



La sterilità di un’etichetta, l’obbligo di una risposta

Avevo deciso di non rispondere a critiche che avessero ad oggetto l’“antispecismo politico”: con tale etichetta, infatti, si intende una serie di autori italiani (da Massimo Filippi, Filippo Trasatti, Antonio Volpe, ad Aldo Sottofattori e Filippo Schillaci, oltre a chi scrive) e stranieri (Ted Benton, David Nibert, John Sanbonatsuu, Matthias Rude ma, per certi versi, anche Martin Balluch) che sostengono teorie molto diverse e che andrebbero sottoposte a critiche specifiche. Chi parla di “antispecismo politico”, in genere, conosce poco o nulla le tesi di questi autori ed è soltanto interessato alle conseguenze del loro pensiero, cioè al fatto che essi critichino l’impostazione teorica e pratica dell’animalismo classico: poiché queste conseguenze risultano spiacevoli e non gradite agli animalisti essi cercano una serie di motivi più o meno fondati per attaccare un’etichetta di comodo – l’entità astratta “antispecismo politico” – invece di confrontarsi con il pensiero degli autori sopra citati e con i loro argomenti.
Secondo il noto meccanismo del capro espiatorio che serve da sempre a rinsaldare i ranghi di un gruppo attraverso il sacrificio di chi viene additato come diverso, nemico, “pericoloso”, chiunque critica l’animalismo viene identificato come “antispecista politico”, diventando eo ipso il bersaglio di una campagna di diffamazione che stravolge totalmente la realtà: chi critica il dogma viene diffamato come dogmatico, chi avanza dubbi viene descritto come pieno di certezze, chi addita la violenza implicita viene percepito come violento, chi vuole introdurre approcci diversi in un panorama troppo uniforme viene visto come un dittatore che vuole imporre una visione unitaria ecc. Il diverso mette in pericolo l’identità, dunque “terrorizza”: non è un caso che in risposta alle critiche rivolte all'animalismo classico è circolata per un po' di tempo una sonora sciocchezza detta da Melanie Joy secondo la quale il pericolo per il movimento in difesa degli animali consisterebbe nel creare divisioni interne. Strano, uno direbbe che il pericolo per un movimento sta nel sostenere tesi prive di fondamento e nell’essere impermeabili alla verifica della prassi! Ma, appunto, tutto ciò non ha più niente a che fare con il confronto razionale e dunque va accettato come inevitabile conseguenza dell’aver toccato dei nervi scoperti.
Tuttavia nel corso del tempo, alcuni – pur facendo essi stessi uso di questa disgraziata etichetta e cedendo talvolta a questo tipo di dinamiche identitarie – hanno tentato di criticare nel merito il mio libro Al di là della natura. Il tipo di obiezioni mosse sono quasi sempre le stesse: ragione per cui darò ad esse una risposta che prescinde dai singoli che le hanno mosse.  

La critica all’antispecismo politico
È per me in genere alquanto imbarazzante rispondere alle critiche che la lettura di Al di là della natura ha suscitato perché esse sono fondamentalmente di tre tipi:

(1) In alcuni casi mi si obiettano cose che non ho mai sostenuto
(2) In altri casi mi si obietta l’esatto contrario di ciò che ho sostenuto
(3) In altri casi mi obiettano cose che ho sostenuto io stesso (!)

Vediamo nel dettaglio.
L’obiezione fondamentale che è stata mossa all’impianto del libro è la seguente: io farei coincidere l’inizio dello specismo (e delle società di classe) con l’avvento delle “società stanziali” (o “neolitiche”) e poiché questo sarebbe discutibile (“non ci sono certezze”) o fattualmente falso (il caso, ad es., dei “nomadi” Kurgan da me "ignorato" lo smentirebbe), la mia teoria non reggerebbe in questa forma.
Ora, questa obiezione si fonda su una serie di confusioni terminologiche e concettuali e su un totale rovesciamento di quanto io ho sostenuto in Al di là della natura sia in sede metodologica che fattuale.

Anzitutto, tale critica si fonda su tre equivoci terminologici:

1)      Essa confonde il “neolitico” come concetto storico e il “neolitico” come modello antropologico-sociologico (nel senso in cui si parla di “società neolitiche”, “società di produzione”, “società calde” ecc.). Il neolitico, in senso storico, rappresenta cioè esclusivamente un caso (forse il primo) di un modello più generale.
2)      Essa confonde i “nomadi raccoglitori e cacciatori” e i “nomadi pastori”. Quando io parlo dell’opposizione tra società “stanziali”/ “neolitiche” e società “nomadi” parlo sempre ed esplicitamente dei “cacciatori-raccoglitori”.
3)      Essa confonde il rapporto “gerarchico” come attribuzione di uno status privilegiato ad alcuni umani con il rapporto di “classe” che implica e si fonda sull’appropriazione di lavoro altrui.

Da ciò derivano gravi conseguenze di lettura di ciò che ho sostenuto che fanno sì che i miei critici stravolgano completamente il mio pensiero. Anzitutto da un punto di vista metodologico.

La genealogia è una ricostruzione fenomenologica, non una storia empirica
Qui non si raccontano storie!
(Edmund Husserl)

Molte critiche rivolte ad Al di là della natura si basano sul fatto che mi si attribuisce la ricerca dell’origine del Male: agendo in questo modo i miei critici si pongono tutta una serie di domande che io non mi pongo affatto e che considero prive di senso (ad es: “quando è avvenuto il distacco dalla natura?”). Per me non esiste la causa che ha prodotto il dominio. In effetti, tutto il mio libro è un attacco frontale al primitivismo, cioè all’idea che sia possibile fissare un punto della storia in cui l’uomo abbia compiuto il passo negativo che ha introdotto il Male e che occorrerebbe tornare indietro a quel tempo per restaurare il “paradiso in terra”. Questa visione mi è totalmente estranea e quindi non solo non penso affatto che il neolitico sia l’inizio del Male ma penso che non lo sia nemmeno la nascita del patriarcato o l’invasione di qualche popolo “guerriero”. Solitamente queste critiche descrivono in modo del tutto errato il metodo che ho seguito. A me non interessano le cause ma gli effetti: io non mi chiedo cosa abbia prodotto X ma a quali condizioni si produce X. Che è ben altra cosa. La mia genealogia dello specismo non è quindi una storia della caduta dal Paradiso ma una ricostruzione fenomenologica in cui il materiale empirico serve a descrivere fasi ideal-tipiche di sviluppo dei rapporti sociali intra ed extra-umani. Ecco perché parlo di “società neolitiche” nel senso di un modello sociale (elaborato in sede sociologica e antropologica) fondato sull’accumulo e l’espansione e non mi interesso del “Neolitico” in senso storico. Che la società neolitica sia la condizione necessaria ma non sufficiente per la costruzione di un regime classista è, di nuovo, non una incerta verità storica ma un’ovvietà. E le modalità di passaggio empirico dalla società neolitica allo Stato classista (gli Early States) varia, come è ovvio, da regione a regione e da epoca ad epoca. Il caso, talvolta citato, dell’invasione Kurgan (che interessa, ad es., ricostruzioni storiche proposte da Filippo Schillaci) è uno dei tanti: tutte le società stanziali hanno avuto rapporti più o meno stabili, più o meno conflittuali con società nomadi, talvolta assorbendole, tal altra venendone conquistate. Per questo non me ne sono interessato (tra l’altro chi mi accusa di aver sottovalutato l’esempio dei Kurgan come popoli nomadi “dominatori” non si accorge che i Kurgan non sono nomadi “raccoglitori” ma nomadi “allevatori” di animali dunque l’obiezione che mi si muove non funzionerebbe nemmeno se io sostenessi la teoria che talvolta mi si attribuisce: ovvero che l’allevamento è l’origine del Male). Altre società sono evolute autonomamente dalla fase neolitica alla fase statale-classista. Altre sono addirittura de-evolute ad un livello di organizzazione più semplice abbandonando la dimensione stanziale. Ciò che ho sottolineato nel libro, dunque, non è il fatto empirico che questa o quella società sia diventata classista attraverso il dominio sulla natura,  ma la costruzione ideal-tipica per cui non è possibile costruire rapporti di classe (sfruttamento del lavoro mediati da un’autorità centrale politico/religiosa che si pone come garante dell'unità sociale) senza passare per una fase di dominio sulla natura circostante che garantisca il surplus necessario all’esistenza di strati sociali non impegnati nel lavoro materiale.

Le mie presunte fallacie storiche
Dunque io non ho affatto inteso raccontare la “storia dello specismo”: gli elementi storici che ho citato nel libro servivano piuttosto a problematizzare le certezze dell’antispecismo metafisico (che gli uomini hanno “sempre” imposto il proprio dominio agli animali, che si siano “sempre” ritenuti superiori, che lo specismo sia la causa del sessismo e del razzismo ecc.). Per fare questo sono bastate poche nozioni storiche comunemente condivise.
È curioso che spesso mi si accusi di accampare eccessive “certezze” su un periodo storico di cui non sappiamo abbastanza con domande tipo: elaborare teorie basandosi su presunti fatti storici non è azzardato? In fondo: cosa possiamo dire di “certo” sul neolitico? Beh, rispondo io, ad esempio che prima non venivano addomesticati animali? E che prima di questa fase gli animali che soddisfano i bisogni umani erano “liberi” e dopo sono materialmente “schiavi”? Mettere in dubbio questi semplici dati di fatto significa sprofondare nello scetticismo storico più assoluto. Tanto vale sostenere che non si può escludere che gli uomini abbiano avuto le ali durante l’età del ferro...
Chi mi accusa di avere troppe “certezze” che mi portano ad affermare in modo azzardato che lo sfruttamento animale nasce col passaggio dalle società nomadi alle società stanziali fondate sull’agricoltura e l’allevamento dovrebbe suggerire quale altro tipo di nesso si possa stabilire tra queste forme sociali. Nel momento infatti in cui si intenda “società nomadi” nel senso di “società di caccia e raccolta” (l’unico senso in cui adopero tale espressione) questa conclusione è talmente vera da essere tautologica. L’allevamento infatti è la quintessenza dello “sfruttamento animale” in quanto, a differenza della caccia, rende la vita animale interamente funzionale al bisogno umano. Inoltre, la mia lettura di questo passaggio è talmente poco “dogmatica” che ho anche sottolineato come ci sia un passaggio graduale tra paleolitico e neolitico (ad es. ho parlato della caccia come fenomeno sistematico delle ultime fasi paleolitiche – testimoniato dall’accrescimento e specializzazione dei resti fossili di animali cacciati – che prelude già alla riduzione dell’animale ad appendice del bisogno umano).
Da tutto ciò si capisce anche perché è totalmente falso farmi sostenere che lo specismo “inizi” con l’allevamento e la domesticazione. Tra l’altro chi ragiona così dimentica che ho distinto il “lato materiale” dello specismo (la prassi di sfruttamento) dal “lato ideale” (la giustificazione dello sfruttamento) e nel libro dico esplicitamente che se l’allevamento rappresenta l’inizio dello specismo in senso materiale esso non implica affatto una squalificazione simbolica dell’animale che è un fenomeno successivo. Dunque non capisco perché qualcuno mi obietta che nelle “prime società pastorali” la natura e l’animale erano ancora “sacri”.  L’ho detto io stesso!
Ho addirittura sostenuto che se lo specismo in senso “ideale” implica l’attribuzione di un valore assoluto all’Uomo in contrapposizione all’Animale esso allora nasce con l’illuminismo e forse anche dopo perché qualsiasi società in cui alcuni umani vivono come o peggio di alcuni animali non può essere a rigore considerata “specista”. Sono questo tipo di contraddizioni dell’antispecismo metafisico che ho cercato di risolvere.
Allo stesso modo, non ho mai sostenuto che le prime società stanziali fossero società di classe: ho detto che senza l’accumulazione di un surplus economico non può costituirsi un rapporto di classe, cioè l’appropriazione del lavoro altrui il che è, di nuovo, tautologico. A meno che uno non confonda un rapporto gerarchico con il rapporto di classe che è un caso particolare di esso (e che può convivere con altri tipi di rapporto gerarchico – relativo all’età, al genere, all’etnia ecc. –  senza perdere la propria autonomia e differenza specifica).  Non so quanto le prime società stanziali fossero “pacifiche” come ritiene la Gimbutas ma ho fatto attenzione a descrivere l’evoluzione da società “tendenzialmente egualitarie” (che non vuol dire “totalmente egualitarie” perché, come è ovvio, le differenze di età e genere contano anche nelle società di caccia e raccolta) verso società belliciste (nel libro cito, tra gli altri, Anatomia della distruttività umana di Fromm che descrive per pagine e pagine il mito di Çatal Hüyük come comunità agricola pacifica).
Infine, due parole sugli atzechi che vengono talvolta citati per dimostrare l’esistenza di società gerarchiche, in cui esistono addirittura schiavi, dove gli animali non vengono allevati. Anche qui si tratta di un caso storico che ho espressamente citato nel libro e che ho citato (a) contro gli antispecisti metafisici (perché qui l’uomo è considerato “cibo” al pari dell’animale e dunque la società azteca non può essere definita specista secondo i criteri dell’antispecismo metafisico) e (b) contro i primitivisti che pretendevano esservi un legame lineare e diretto tra allevamento e schiavitù. C’è però da dire che, contrariamente a quanto talvolta si sostiene, gli aztechi praticavano l’agricoltura, erano stanziali ed è dubbio si possa parlare in senso proprio di “schiavitù” (occorre distinguere tra l’altro gli schiavi di guerra destinati alla macellazione da quelli dediti al lavoro domestico). Quella azteca è stata definita da alcuni antropologi una società di passaggio tra il chiefdom e gli stati arcaici.
Materialista sarà lei!
Da diverse parti mi si è mossa l’accusa di avere una visione “storico-materialista”, di dare “esclusiva” importanza all’elemento economico mettendo in secondo piano altri aspetti altrettanto importanti dell’esistenza umana. Mi ricorda quell’attivista che assicurava che avevamo “visioni del mondo” diverse perché io ero “materialista” e lei no. Da gente che ha letto Al di là della natura mi aspetterei una critica più circostanziata. Nessuno nota la stranezza di un testo materialista che si intitola “al di là” della natura? Nessuno nota che il libro corregge il materialismo antropocentrico marxista con l’antispecismo e i limiti idealistici dell’antispecismo con il marxismo? Nessuno nota che il libro ha come obiettivo la liberazione dal dominio dell’utile, cioè dell’economico? Nessuno ha letto la nota in cui dico esplicitamente che la questione animale costringe a superare l’opposizione tra idealismo e materialismo?
Ora, dire che si possa superare l’egemonia dell’economico non significa far finta che non esiste! Significa dare all’economico il giusto peso che gli spetta per descrivere una realtà che è asservita all’utile (antropocentrico). Per cambiare il mondo devi prima descriverlo com’è, non come ti piacerebbe che fosse. E il problema a questo punto è: chi dà il “giusto peso” all’economico? Ovviamente i miei critici sostengono di essere loro e che io gli do troppo peso. Beh come argomento mi sembra deboluzzo, non si chiede all’oste se il suo vino è buono.
Qualcuno sostiene infatti che io (come tutti i marxisti e, ovviamente, gli “antispecisti politici” dimenticando che ce ne sono di non marxisti…) cancellerei l’irrazionale dalla storia. Se si interrogasse Marx su questo si vedrebbe che è vero esattamente l’opposto. L’umanità è in balia dell’irrazionale proprio in quanto è in balia di cieche forze economiche e sociali che non controlla. Per Marx una società razionale deve ancora nascere e può nascere solo operando il salto dal regno della necessità al regno della libertà: cioè uscendo dal dominio dell’economico. Mi pare invece che talvolta i miei critici abbiano una nozione limitata di “irrazionale” e che contrappongano razionale e irrazionale in modo un po’ rigido. Tutto il mio libro – sulla scorta dei francofortesi da cui prende le mosse – descrive ad es. la storia come dominata da una “razionalità irrazionale”. Nel mio libro la ragione (che non è una “facoltà” umana ma un modo di essere sociale e storico) come forza di libertà si è manifestata solo a tratti e in modo confuso e non può dispiegarsi completamente se continua a reprimere ciò che di volta in volta ha posto come Altro-da-sé (il mito, l’animalità, l’inutile ecc.).

L’irrazionale non è l’aleatorio
Desiderando opporsi al mio oggettivismo “estremo” qualcuno sostiene che la storia possa essere modificata dal comportamento irrazionale di singoli individui e quindi in modo aleatorio. Lo si fa per poter poi sostenere che gli individui sono importanti quanto la società e che non si può prescindere dall’individuo per cambiare quest’ultima. Qui ci sono due errori legati tra loro: il primo è che irrazionale non è sinonimo di aleatorio, un comportamento irrazionale si definisce tale solo e soltanto rispetto ad una norma di razionalità che non ha una misura fissa e astorica (ciò che è razionale e irrazionale, dunque, lo si definisce di volta in volta in sede storica e varia da società a società); il secondo è che non tutti i comportamenti irrazionali hanno le medesime possibilità di incidere sul corso storico ed è certo – una certezza che possiamo definire solo a posteriori – che nel momento in cui un’azione irrazionale individuale produce un cambiamento sociale ciò accade solo perché la società aveva già creato le condizioni perché tale cambiamento avvenisse e perché quell’individuo lì, con quelle caratteristiche specifiche producesse un cambiamento. Gli individui “influenzano” la società solo perché la società li mette in condizione di farlo, nel senso che essi si trovano al crocevia di forze e tendenze sociali più ampie e lo occupano nel momento “giusto”. In questo non c’è nulla di aleatorio. Come dice Costanzo Preve, se Hitler non fosse nato il nazismo non avrebbe avuto probabilmente il carattere follemente antisemita che ebbe; sta di fatto che se Hitler ha potuto prendere il potere ciò è avvenuto perché ha trovato le condizioni sociali che glielo hanno permesso, condizioni che hanno affidato un ruolo specifico, determinato e prevedibile anche alla sua “follia”.
Questa visione del singolo il cui atto aleatorio può produrre cambiamenti sociali epocali è, a sua volta, vittima di una visione unilaterale perché dimentica che gli atti individuali si inseriscono sempre dentro processi di più ampia portata che essi non controllano. Il che significa che un atto individuale per produrre effetti sociali deve comunque interagire con altre forze perché i processi sociali sono l’esito e la risultante di una composizione di forze diverse: è proprio questo che li qualifica come “sociali”. L’atto del singolo può forse dare l’avvio a o portare a conclusione un processo sociale ma non può sostituirsi ad esso, non diventa mai in nessun caso come tale un processo sociale. Pensare che l’atto di un singolo possa da solo produrre un processo sociale significa confondere l’azione individuale (che è spiegabile in termini di intenzione-effetto) con il processo sociale (che è invece sempre surdeterminato, cioè è il prodotto di fattori molteplici). Chi mi critica in questo senso presuppone quindi sempre uno schema atomistico e individualistico, tipico dell’antispecismo metafisico. Neanche il più totalitario dittatore potrebbe far calare dall’alto le proprie decisioni ignorando i corpi intermedi che devono fare da cinghia di trasmissione alla sua volontà e che, inevitabilmente, lo fanno secondo modalità proprie e producendo effetti mai interamente prevedibili e programmabili in anticipo.

L’animalismo è il vero riduzionismo

Solo una lettura banalizzante e iper-semplificante può far credere che per Marx l’economico sia l’unico fattore di spiegazione delle dinamiche sociali. È vero anzi che per Marx l’economico diventa fattore esplicativo preponderante solo a partire dall’imporsi del modo di produzione capitalistico. Prima dell’età moderna tale fattore (che rimane comunque indispensabile per capire la struttura sociale poiché nessuna società può sussistere senza organizzare il lavoro per garantirsi la riproduzione materiale) era uno dei tanti che costituiva il ricco gioco della vita sociale.
Tutto questo è talmente ovvio che non si capisce perché si debba ripeterlo. Tra l’altro io nel libro, come ho già ricordato, distinguo l’aspetto materiale dello specismo da quello ideale-simbolico e tratto i due elementi nella loro (relativa) autonomia senza mai ridurre il secondo al primo. Non ho mai sostenuto che l’Essere determina la Coscienza bensì che i due aspetti sono tra di loro intrecciati e per questo bisogna prendere in considerazione anche e necessariamente il primo fattore. Certo poi è vero che il modello sociale attuale in cui tutti i rapporti sociali sono determinati dalla forma di merce è costruito proprio sulla predominanza dell’elemento economico (l’Essere) su quello culturale (la Coscienza) per cui è la condizione sociale attuale – non una visione astorica e universale dei rapporti tra Essere e Coscienza – a richiedere di agire primariamente sul piano economico: il famigerato “materialismo” di Marx non è altro che uno strumento rivolto contro il “materialismo” capitalistico, è un atteggiamento “critico” non una “visione del mondo”.
Invece gli animalisti pretendono di parlare in generale della società umana mentre la società umana è un’astrazione, non esiste come tale. E anche chi sostiene di voler essere “cauto” nei suoi giudizi ha in questo caso una visione generica ed unilaterale dei rapporti tra dimensione simbolica e prassi materiale quando sostiene che il piano “simbolico” o “culturale” retroagisce in modo sostanziale sulla realtà materiale dei rapporti sociali. Notare che chi argomenta così sostiene che il simbolico che, in teoria, non dovrebbe essere “separato” dalla realtà materiale, viene invece considerato separabile tanto da poter da solo influenzare la società indipendentemente dalle pratiche materiali. Questa definizione o è idealistica o è molto confusa.
Quanto si dice, ad es., che la “cultura” indiana rispetta la sacralità della vacca anche in caso di mancanza di cibo per dimostrare che la dimensione simbolica è indipendente da quella materiale non si dice tutta la verità: ciò è infatti smentito dai numerosi casi in cui è previsto aggirare il precetto della non-violenza, ad es. facendo sì che siano altri ad agire in modo violento e lasciando che il karma negativo ricada su questi ultimi. Le cose non sono così semplici come si vorrebbe far credere. Il livello simbolico e quello materiale sono in genere legati in modo inestricabile e un cambiamento in uno dei due livelli della realtà si ripercuote anche nell’altro, seppure secondo le leggi proprie e specifiche di ogni livello. Come ha ben mostrato Lévi-Strauss, i sistemi simbolici sono degli insiemi coerenti, non è cioè possibile produrre in essi un cambiamento (interno o esterno) che non si ripercuota nel resto della struttura simbolica facendola riorganizzare. A chi è convinto che io sottovaluti l’importanza della dimensione simbolica non posso purtroppo far altro che rimandare ad un altro testo.
Ma il problema è che nel libro Al di là della natura ci sono pagine e pagine dedicate alla differenza tra il piano simbolico e quello materiale e che i miei critici sembrano ignorare ingiustamente dipingendomi come un rozzo economicista. Nel libro ho anzi sottolineato come sia l’antispecismo metafisico ad operare la riduzione inversa, cioè pretende che la struttura materiale della società sia senz’altro modificabile agendo sulla coscienza degli individui. Per l’antispecismo metafisico la Coscienza determina l’Essere senza se e senza ma. E questa è l’unica posizione riduzionista che circola nel dibattito antispecista.

Tutti insieme appassionatamente?
Il mondo è pieno di “teorici” che vorrebbero porsi come “sintesi” tra l’animalismo vecchia maniera e il cosiddetto antispecismo politico, cioè tra l’animalismo dogmatico e l’antispecismo critico ma si tratta di un matrimonio che mette insieme cose contraddittorie.
Spesso mi sento dire: ma perché ti ostini a sostenere l’importanza di agire a livello sociale a scapito di quello individuale? Non possiamo fare l’una cosa e l’altra? Con il che si è completamente rovesciata la realtà attraverso il gioco delle tre carte. Le critiche che ho mosso all’animalismo nascono dal fatto che la dimensione sociale-sistemica è totalmente assente, non viene né teorizzata né si agisce su di essa. L’antispecismo metafisico (cioè l’animalismo dogmatico) nega l’importanza dell’aspetto sociale, istituzionale, economico, transindividuale. È costruito sulla negazione, cioè sulla cancellazione di questi aspetti e tutti i suoi concetti (lo specismo come pregiudizio) e le sue pratiche (azione morale rivolta agli individui) si reggono e si sostanziano di questa negazione producendo la trasformazione della liberazione animale in un rito identitario chiuso su se stesso, incapace di analizzare la realtà sociale e di agire efficacemente su di essa (il problema dell’efficacia, ad es., non viene nemmeno posto, ci si accontenta di avere una visione “coerente” e “non-antropocentrica”: l’animalismo segue l’etica dell’intenzione). Non si può mettere insieme l’idea che le dinamiche sociali sono fondamentali con l’idea che esse non sono fondamentali. O lo sono – e allora bisogna trarne le conseguenze che sono mortali per l’antispecismo metafisico e l’animalismo – oppure non lo sono: tertium non datur.
L’ “antispecismo politico” ridimensiona la portata del pregiudizio che prima era assolutizzato (rendendolo un fattore tra gli altri) e fa emergere una serie di problemi nuovi che richiedono altre formulazioni teoriche, altri linguaggi, altre tattiche ed altre strategie. E questo porta necessariamente a riformulare le istanze etiche relativizzandole.
Per questo si sostiene la necessità di iniziare a pensare i fenomeni in termini sociali e di ipotizzare tattiche e strategie adeguate a questo livello della realtà (il che implica, l’ho detto più volte, non il semplice desiderio di farlo ma mettersi a tavolino, creare gruppi di lavoro, spendere energie e tempo in altre forme di attività).  Non si può ora dire “facciamo una cosa ma anche l’altra” perché “l’altra” non viene nemmeno presa in considerazione se si prosegue a pensare e ad agire come fatto finora.
L’animalismo è una visione riduzionista che pretende che agire sulla Coscienza modifichi la realtà sociale. Questo è un dogma. L’animalismo è convinto che la realtà sta cambiando grazie ai suoi sforzi senza avere alcun criterio di misura e di controllo dell’efficacia sociale delle sue azioni. Questo è un dogma. Per non agire in senso dogmatico bisognerebbe prendere in considerazione l’altra campana: la forza preponderante del sociale sugli individui e la necessità di elaborare tattiche e strategie di azione a lungo raggio (il che implica anche la possibilità di controllare l’effetto globale delle azioni che si mettono in campo per eventualmente aggiustare il tiro ecc.).

La metafisica è brutta anzi bellissima
Una delle obiezioni più divertenti che mi sono state mosse è quella secondo cui l’antispecismo politico sarebbe esso stesso “metafisico” perché le sue tesi sarebbero “astratte” e “generiche”. Semplicemente perché invece di considerare la società la mera somma degli individui esso parla di strutture super-individuali (che vengono appunte definite “metafisiche”). Ecco che metafisico diventa qui sinonimo di “generale-universale” come contrapposto a “particolare-singolare”. Chi ragiona in questi termini sembra propendere per una visione nominalistica che considera più reali gli individui rispetto alle forze super-individuali. Anche in questo caso tutto dipende dal tipo di società di cui si parla, non esiste un modello universale per descrivere il funzionamento sociale. Quando si afferma, per esempio, che individuo e società si “creano” a vicenda” si fa un’affermazione troppo generale che solo una visione dogmatica può pretendere come valida per tutte le società e per tutti i periodi storici. Si potrebbe discutere, ad es., se ciò sia stato vero nel periodo paleolitico o in piccoli gruppi di nomadi raccoglitori o nella Grecia delle poleis. Ma è vero anche dell’epoca di Nerone o nel Terzo Reich? E per la società attuale? Affermarlo sarebbe veramente contro-intuitivo in una società in cui le dinamiche globali economiche trascinano con la propria forza il destino di interi stati e si fanno beffe delle proteste degli individui. Il fatto che l’universale (le strutture “metafisiche”) condizionino il particolare non è una tesi che pretende valere sempre (almeno non per me, mentre a sostenerlo sono, ad es., Sottofattori, Schillaci e Balluch) ma sicuramente per oggi. Già Marx parlava del mistero “metafisico” della merce che rende universalmente presente un meccanismo spersonalizzato che sembra funzionare a prescindere dagli attori sociali coinvolti.
In sede sociologica “olismo” indica che “il tutto è più della somma delle parti” e, dunque, che in termini sociali la società è più della mera somma degli individui che la compongono. Si potrebbe sostenere che la mia posizione sia “olistica” in questo senso, ma a torto. In effetti, una considerazione “olistica” della società va in direzione dell’antispecismo politico e qualifica la posizione di una serie di antispecisti (Balluch, Sottofattori, Schillaci) da cui ho più volte preso le distanze proprio perché ritengo che la condizione di priorità delle strutture rispetto agli individui non sia una condizione ontologica/naturale dell’esistenza umana quanto la cifra dei rapporti sociali qualificati dal dominio.
Che ci sia “circolarità” tra individui e sistema è un’aspirazione, non un dato di fatto. È una condizione di conciliazione tra particolare e universale, un punto di arrivo cui bisogna guardare come ideale regolativo, non certo una condizione che si possa esperire qui ed ora. Si tratta, appunto, di renderlo possibile (o avvicinarsi quanto più possibile ad una simile condizione) smantellando i meccanismi decisionali, informativi, economici ecc. che bloccano un tale sviluppo. Ecco perché l’etica e l’individuo vengono presi sul serio solo da chi – come i cosiddetti antispecisti “politici” – vuole una società in cui l’individuo sia effettivamente (e non fittiziamente) libero e possa contribuire all’indirizzo della società in modo fattivo, informato, attraverso una aperta discussione collettiva.
Il tutto è il falso. Si tratta di emanciparsi dal dominio della totalità e far emergere lo spazio vitale delle singolarità umane e non-umane. Per fare questo non c’è bisogno di “affermare” che l’individuo conta. Bisogna iniziare a lottare perché conti davvero.

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