di Marco Maurizi
Può esistere un’amicizia con gli animali?
«Animali
domestici, animali prediletti e affini – C’è qualcosa di più stomachevole
del sentimentalismo verso animali e piante da parte di una creatura che
all’inizio ha dimorato tra di loro come il più furibondo nemico e che alla fine
pretende nelle sue indebolite e mutilate vittime anche teneri sentimenti? Di
fronte a questo genere di “natura” all’uomo si addice soprattutto serietà, posto che sia un uomo
pensante». (F. W. Nietzsche)[1]
Poniamo una domanda strana e
curiosa che ha oggi poca possibilità di essere presa sul serio. Parliamo di
un’amicizia tra noi e gli altri animali, espressione che trasgredisce le regole
del linguaggio consueto secondo le quali di “vera” amicizia può parlarsi solo
tra umani. E anche coloro che sarebbero disposti a parlare di amicizia tra noi
e gli altri animali (ad esempio nel caso del cane, il «migliore amico dell’uomo»,
qualsiasi cosa ciò possa significare) non accetterebbero certo di considerare
possibili amici i cosiddetti «animali da reddito» e, se lo facessero (si veda
la retorica delle «fattorie felici»), verrebbero smentiti dalla semplice
constatazione che gli amici non si uccidono, né si mangiano. I pitagorici pare
fossero vegetariani proprio per questo motivo: credendo alla reincarnazione
delle anime non volevano trovarsi nella pancia per sbaglio un ex commilitone.
Non è un caso,
dunque, che anche in ambito antispecista un discorso sull’amicizia tra noi e
gli altri animali rischi di essere frainteso e rifiutato. Il movimento per la
liberazione animale, infatti, ribadisce da tempo di essersi lasciato alle
spalle la fase della zoofilia, cioè
quell’atteggiamento di generica “benevolenza” verso le altre specie che è
servito da sempre a mascherare, e quindi perpetuare, i peggiori crimini contro
gli animali. Questi ultimi non hanno bisogno di dichiarazioni di simpatia, si
dice, ma di giustizia.
Nel porre
quella domanda iniziale non intendiamo certo negare quanto sia stato necessario
far chiarezza su questo punto. L’idea che si tratti di fare della questione
animale una questione di giustizia e non di benevolenza fa senz’altro parte
delle conquiste del movimento antispecista. Se torniamo ora sulla questione della
zoofilia, non lo facciamo quindi per restaurare un approccio ormai superato
nella teoria e dalla prassi del movimento, quanto per mostrare che esso non è
stato ancora sufficientemente superato. Per mostrare che la zoofilia rimane tuttora
un problema dell’antispecismo e lo rimarrà finché non si saranno fatti i conti
con essa. O, almeno, finché non si saranno fatti i conti con quel suffisso
strano e sfuggente su cui si getta un occhio sempre troppo distratto: philìa, amicizia. Perché prima ancora di
chiederci se può esistere un’amicizia con gli animali o magari escludere che
essa possa essere rilevante per l’antispecismo, forse dovremmo chiederci cos’è l’amicizia.
L’amicizia «perfetta» dell’animal rationale
Nell’Etica nicomachea, Aristotele definisce l’amicizia qualcosa di
«assolutamente necessario alla vita»[2]. Non
solo, infatti, sembra esserci una necessità
interiore che ci spinge alla ricerca di altri con cui condividere la nostra
vita («senza amici nessuno sceglierebbe di vivere»), ma addirittura la coesione sociale non sarebbe possibile
se non si tenesse a bada l’inimicizia[3]. Se la
giustizia, sostiene Aristotele, da sola è insufficiente a garantire la
concordia (omonoia), l’amicizia basta
a se stessa e include il senso di giustizia.
Ovviamente, per
sostenere ciò, Aristotele deve avere un concetto molto alto di amicizia. Per
Aristotele esistono infatti tre specie di rapporto amicale: uno fondato sull’utile, l’altro sul piacere, l’ultimo sul bene.
È chiaro però che solo quest’ultimo descrive l’amicizia in senso proprio perché
«coloro che amano a causa dell’utile, amano a causa di ciò che è bene per loro,
e quelli che amano per il piacere lo fanno per ciò che è piacevole per loro, e
non in quanto l’amato è quello che è, ma in quanto è utile o piacevole»[4]. L’«amicizia
perfetta», invece, è quella in cui «coloro che vogliono il bene […] provano
questo sentimento per quello che gli amici sono per se stessi»[5].
È chiaro che
l’antispecismo configura un tipo di rapporto con gli animali che potrebbe
rientrare in questo terzo caso, poiché esclude che il rapporto con i non-umani
possa essere basato sul nostro tornaconto e sulla soddisfazione esclusiva dei
nostri piaceri. Esso potrebbe, dunque, in teoria, venire definito come sorta di
zoofilia aristotelica. Tuttavia, la
concezione dell’amicizia di Aristotele è carente sotto almeno tre punti di
vista per noi essenziali: è identitaria,
è intellettualistica e, naturalmente,
è intrinsecamente specista.
Infatti, anche
se l’amicizia vera non prevede alcuno scambio basato sull’interesse[6],
Aristotele ammette che «ciascuno riceve dall’altro cose identiche da tutti i
punti di vista o simili»[7]. E
ciò avviene perché si ama nell’altro ciò che c’è di amabile in noi. Non solo «i
sentimenti di amicizia verso il prossimo […] sembrano derivare dai sentimenti
che l’uomo ha verso se stesso», ma l’altro che amiamo è, di fatto, un’immagine di noi stessi: «il virtuoso
prova verso se stesso ciascuno di questi sentimenti» e «li prova verso l’amico
come verso se stesso (l’amico, infatti, è un
altro se stesso)»[8].
Ma se l’altro
è un’immagine di noi e dunque non si esce dall’identità, perché Aristotele
sostiene che il bene che si cerca per l’amico è disinteressato? Perché si
tratta di un bene che nasce non dall’«elemento irrazionale dell’anima» (quello
che ci spinge a inseguire beni materiali come «ricchezza», «onori» e «piaceri
corporali»[9]),
bensì consiste nel curare in noi e nell’altro la parte intellettuale dell’anima. È quest’ultima che l’uomo
virtuoso «ama» e cerca di «compiacere»[10].
Quest’ultimo
aspetto è legato alla visione gerarchica della realtà propria di Aristotele. L’amicizia
perfetta (cioè disinteressata) non sembra essere possibile infatti se non a
partire dalla divisione e dalla contrapposizione rispetto a ciò che è
considerato inferiore. Non solo,
infatti, potranno essere amici solo coloro che svalutano la propria parte sensibile-irrazionale-corporea-animale a
vantaggio di quella intellettiva-razionale-spirituale-umana, ma la stessa «comunanza»[11] tra
amici non sarà possibile se non sulla esclusione
di coloro che non hanno accesso a questo livello di “umanità”. Ed è questo che
rende impossibile l’amicizia tra il padrone e lo schiavo e, ancor di più, tra l’uomo
e gli altri animali.
Quando non c’è nulla di comune tra chi governa e chi è
governato, non c’è neppure amicizia tra loro, giacché non c’è giustizia; per
esempio, tra artigiano e strumento, tra anima e corpo, tra padrone e schiavo
[…]. Ma verso esseri inanimati non è possibile né amicizia né giustizia. Ma
neppure verso un cavallo o un bue, né verso uno schiavo in quanto schiavo. Non
c’è niente di comune, infatti, in quanto lo schiavo è uno strumento animato, e
lo strumento è uno schiavo inanimato. Quindi, non è possibile amicizia verso di
lui in quanto schiavo, ma è possibile in quanto uomo: si ritiene, infatti che
ogni uomo può avere un rapporto di giustizia con chiunque abbia la possibilità
di avere in comune con lui una legge o un patto; e, per conseguenza, si potrà
avere anche un rapporto d’amicizia con uno schiavo nella misura in cui questi è
un uomo[12].
È chiaro però, da quanto
Aristotele dice degli schiavi, che la «comunanza» che porta con sé «amicizia» e
«giustizia» non è un fatto, bensì l’effetto
di una decisione. Se si escludono gli
schiavi dalla vita in comune, se li si tratta ingiustamente non ci potrà essere
alcuna amicizia con loro. Non è la loro natura
a rendere impossibile l’amicizia, ma ciò
che viene loro fatto, come dimostra la consapevolezza, da
parte di Aristotele, che con gli schiavi umani si potrebbe, in via ipotetica, stabilire
una qualche forma di legge o patto.
Per
Aristotele, che basava la propria riflessione, come abbiamo detto, sulla
contrapposizione tra vita intellettuale e vita animale (sensitiva e
vegetativa), ipotizzare una qualche forma di «convivenza» e «comunanza» con gli
animali e gli schiavi avrebbe significato abbassare
l’umano, fargli perdere la sua destinazione
superiore, il suo optimum: l’«attività contemplativa»[13]. Ma
poiché, come Aristotele stesso pensava, questa suprema condizione morale esprime
«felicità» perché è sentita come
«libera» e «autosufficiente»[14],
occorrerà anche riconoscere che tale felicità e autosufficienza sono un inganno, in quanto sono fondate
sull’illibertà, sull’infelicità e sulla dipendenza di altri. Cioè dipendono a loro volta dall’altro che vorrebbero
negare.
La sfida di un’amicizia radicale
Riconoscendo che l’amicizia
aristotelica è identitaria, intellettualistica e specista, dovremo chiederci se
nel frattempo siamo riusciti ad elaborare un modello che sia all’altezza di
essa ma che superi questi difetti. A giudicare dai tentativi fatti
dall’antispecismo nei suoi primi decenni di attività pare proprio di no.
Se è
necessario ammettere che la pubblicazione di Liberazione animale di Peter Singer ha segnato uno spartiacque
importante nella storia dell’antispecismo, è altresì inevitabile osservare come
l’impostazione razionalistica che la
questione animale riceveva nel pensiero singeriano abbia pesato nei decenni a
seguire su tutta la riflessione antispecista di prima generazione[15]. Pur
fondandosi sul riconoscimento della sensibilità animale (il benthamiano «possono
soffrire?»), questa visione dei nostri rapporti morali era fortemente
sbilanciata in senso intellettualistico. Come ha osservato Acampora, si è
probabilmente trattato di una «strategia» che in forma semicosciente cercava di
emanciparsi dal «sentimentalismo» della più antica tradizione di difesa degli
animali[16].
Solo certo eco-femminismo degli anni ’80-‘90 ha provato a sovvertire questa
posizione, rivalutando il profondo significato etico e politico che la sensibilità può avere una volta che si
sia messa in discussione la visione monolitica e asettica della razionalità
patriarcale. L’opposizione tra razionalismo e sensibilismo che si è così venuta
a creare[17] non ha però possibilità
di essere risolta se non si mette in discussione il meccanismo che la produce.
In questo
senso, attraverso gli apporti del post-umanismo[18], del
decostruzionismo[19] e della fenomenologia[20],
l’antispecismo sta oggi scoprendo come la critica della contrapposizione
uomo/animale (così come dell’opposizione spirito/corpo, intelletto/sensibilità,
ecc.) sia inscindibile da una critica più radicale al concetto stesso di identità. Si è così evidenziato come il
tentativo di estendere agli altri animali la protezione (morale e giuridica)
accordata all’umano in base a certe caratteristiche comuni (pensiero,
linguaggio, ecc.), per quanto lodevole, costituisce un’impresa essenzialmente volta
alla colonizzazione dell’altro. Il
discorso dell’allargamento della sfera morale – esemplificato, ad esempio, dal
progetto “Grande Scimmia” – implica un atteggiamento ancora antropocentrico e
profondamente identitario. Esso dice, in sostanza, «io, umano, riconosco a te
animale un diritto solo nella misura in cui tu mi assomigli». L’alterità
scompare, l’identità si afferma. L’altro è tollerato solo se può essere
ricondotto all’identico. E ciò significa non solo che tutto ciò che resta fuori
dal cerchio allargato dell’umano può continuare ad essere trattato come una
“cosa”, ma anche che quel confine umano/non-umano non è stato veramente messo
in discussione, bensì solo reso meno rigido e più mobile.
L’amicizia «stellare» dell’Übermensch
Nietzsche riteneva che «i greci
[…] sapevano […] bene cos’è un amico» tanto che «essi soli, tra tutti i popoli,
possiedono una svariata, profonda e filosofica trattazione dell’amicizia;
sicché ad essi per primi, e sino ad ora per ultimi, l’amico è apparso come un
problema degno di soluzione»[21]. Sino ad ora. In effetti, lo stesso Nietzsche
sviluppò un modello di amicizia alternativo a quello aristotelico e che qui ci
interessa perché, analogamente all’antispecismo, esso rifiuta l’opposizione
etica ed ontologica umano/non-umano ma, al tempo stesso, mette in crisi sia
l’identitarismo sia l’intellettualismo che fanno da sfondo all’intera filosofia
morale occidentale (compresa, dunque, quella antispecista di prima generazione).
L’importanza di Nietzsche per la critica dell’antropocentrismo è stata già
messa in rilievo da Acampora[22]; qui
mi limiterò a discutere in modo più circostanziato il contributo che il modello
nietzschiano di amicizia può dare in quest’ambito.
Essa
costituisce un attacco formidabile alla nozione di identità. Il nucleo di
un’amicizia vera, secondo Nietzsche, coincide infatti con la capacità di
accettare la mutevolezza e il divenire che sta al fondo del nostro
essere. Il pensiero di Nietzsche è tutto volto, come noto, a mostrare come
l’identità non sia un fatto ma una costruzione.
Ciò che noi “siamo”, ciò che sentiamo e pensiamo di “essere” è in realtà il “prodotto”
di una volontà di essere. Nell’uomo
questa volontà si esprime in complesse forme individuali e sociali, nascondendosi
dietro l’identità percepita e strutturandola in modo più o meno cosciente. L’uomo,
più degli altri animali (?), mente a se stesso sull’origine del proprio
desiderio, ama nascondersi dietro le proprie maschere culturali. Questo non
significa che l’identità non esista o sia illusoria, quanto piuttosto che essa
è un meccanismo complesso di cui raramente, o forse mai, si riesce a scrutare
il fondo, scandagliare l’abissale profondità. La questione fondamentale,
secondo Nietzsche, non sarebbe dunque affermare o negare l’identità, quanto
riconoscerne il funzionamento occulto e prendere posizione rispetto ad esso.
Poiché ciò che siamo dipende da ciò
che vogliamo essere, ogni indagine su
ciò che siamo rimarrà alla superficie se non ci svela questa volontà più
profonda (che può coincidere con la nostra libertà oppure semplicemente con il
meccanismo di cui siamo inconsapevolmente schiavi). Non dobbiamo dunque
chiederci «cosa siamo?», ma «cosa vogliamo essere?».
Ciò diventa
fondamentale nel concetto di amicizia. Anzitutto a livello interumano. Non c’è
più verità di noi in ciò che crediamo di
noi stessi di quanta ce ne sia in ciò che gli altri credono di noi[23]. La
verità su ciò che siamo pulsa sotto l’opinione come quella volontà segreta che
ci fa essere ciò che siamo. Possiamo accettare o rifiutare questa volontà, ma
non prescinderne. E non si tratta di una verità che basterebbe pensare, bensì che
occorre vivere, che occorre avere il coraggio di sopportare: la verità di noi
sta infatti innanzitutto nel modo in cui affrontiamo la nostra maschera
identitaria e la decostruiamo, aprendo la possibilità ad una volontà di essere
che sia pienamente “nostra”[24]. Un
atto tragico, secondo Nietzsche, che implica anzitutto il dolore del rifiuto di
una comoda acquiescenza.
Ma anche a
livello interspecifico – tema di cui Nietzsche non si occupa – questo assunto
può essere valido. Anche l’amicizia tra
umani e non-umani non potrà essere tale se si riduce ad incontro tra identità
rigidamente fissate: essa potrà realizzarsi solo se la chiusura identitaria
viene minata ab origine, se insomma
ci si aprirà al riconoscimento di un’apertura e di una potenzialità che è la
radice comune degli esseri e che li lega in un flusso di divenire, in un
costante essere-altro, con-l’altro e nell’altro. L’alterità è qualcosa che
ognuno ha in sé prima di
sperimentarla nell’altro e in questo senso è possibile rovesciare l’assunto
aristotelico: ognuno è amico di sé stesso prima di essere amico dell’altro, ma
perché siamo ignoti anzitutto a noi stessi[25].
È questo il
senso e la necessità dell’estraneità che necessariamente accompagna gli amici,
impegnati nella propria metamorfosi in un continuo tentativo di divenire «degni»
di se stessi[26]. L’ideale dell’amicizia
per Nietzsche non è infatti il divenire
simili nella comune frequentazione, bensì l’inevitabilità di un cambiamento
che accompagna la scelta individuale di seguire il proprio irriducibile percorso.
Quella «sete comune» che rende vera
l’amicizia è l’«ideale» più alto della fedeltà a se stessi: accettare e volere
il proprio divenire-altro-da-sé[27].
Questo
porta Nietzsche a criticare due aspetti deleteri ed inevitabili in una visione
identitaria dell’amicizia e della sollecitudine morale come cura del simile: la
nozione di “prossimità” e quella di “comunità”. Nello Zarathustra Nietzsche scrive: «il vostro amor del prossimo è il
vostro cattivo amore per voi stessi»[28].
Esso implica infatti l’idea di un soggetto identico a se stesso che si prende
cura solo di chi è (o può essere considerato) proprio simile, piuttosto che di
un soggetto che attraverso la metamorfosi si apre all’esperienza dell’estraneo (dentro
e fuori di sé). Ed è precisamente questo che costituirebbe il vero inizio della
morale e, forse, dell’amore in quanto tale: non l’amore per il prossimo ma
«l’amore del lontano»[29]. Per
dirla con Derrida che ha condotto queste riflessioni oltre la sfera dell’umano:
«finché esiste il riconoscibile, il simile, l’etica sonnecchia. Essa dorme di
un sonno dogmatico. Finché rimane umana, tra uomini, l’etica rimane dogmatica
narcisistica e non pensa ancora. Nemmeno l’uomo di cui tanto parla»[30].
Ciò implica,
almeno in prospettiva, il rifiuto dell’esclusivismo
etico, così come di ogni «cameratismo» che, ampliando ad un noi l’ossessione identitaria dell’io, ne amplifica, invece che correggere,
l’illusione e il meschino egoismo[31].
Nietzsche può arrivare così a prospettare una visione etica ed ontologica in
cui «non ci sono nemici»[32].
Affermazione che non coincide affatto con una concezione “idillica” e
“paradisiaca” dei rapporti umani e non-umani, ma che consegue necessariamente
alla dinamizzazione del concetto di identità.
È chiaro infatti
che, così facendo, Nietzsche destabilizza e relativizza l’opposizione
amico/nemico (essa stessa fondata su quella contrapposizione identitaria che
qui viene messa in questione). Non solo coloro che sono «nemici sulla terra»
possono condividere un’«amicizia stellare»[33],
cioè condividere nella loro diversità la legge comune e più profonda del
reciproco mutamento, ma la visione nietzschiana dell’amicizia, rifiutando
l’idea che essa consista nel semplice incontro tra soggettività già fissate, è in
se stessa una visione profondamente conflittuale.
Il polemos, lo scontro, qui indica però
non semplicemente uno stato di guerra e di sofferenza (sempre possibili e anzi
inevitabili ovunque ci sia divenire) quanto l’essenza stessa della felicità[34].
Felicità per Nietzsche non è infatti uno stato di beatitudine – una condizione
impossibile nella misura in cui non c’è un soggetto identico con sé che
potrebbe esperirla –, ma il godimento che accompagna il divenire-sé-stessi come
incessante alterazione di sé.
Ecco perché
Nietzsche scrive: «La gioia comune, e non il dolore comune fa l’amico»[35]. Non
la compassione (Mit-leid, alla
lettera: «soffrire-con»), la condivisione della sofferenza, ma la condivisione
della gioia (Mit-freud, alla lettera:
«gioire-con») fonda l’esperienza dell’amicizia. Ma se l’amicizia come incontro
tra diversi che fanno tesoro della propria diversità e del proprio percorso singolare
coincide con l’apertura alla gioia di un rapporto così profondo e intrinseco
con l’alterità, allora forse si potrebbe tornare a parlare di zoofilia in
questo senso nuovo, pienamente nietzschiano. E ciò ci porterebbe a ribaltare l’osservazione
cautelativa di Bentham («la domanda da porre non è “Possono ragionare?”, né
“Possono parlare?” ma “Possono soffrire?”»[36]).
La concezione
utilitaristica che vorrebbe fondare l’amicizia tra umano e non-umano sulla base
della comune sofferenza compie infatti una mossa corretta seppure di portata
limitata e limitante. La storia dell’inimicizia tra l’uomo e gli altri animali
è infatti una storia di potere in un
doppio senso: del Potere che esercitiamo sul resto del vivente in nome dei
“poteri” che ci attribuiamo in esclusiva negandoli agli altri animali («la
differenza tra l’animale e l’uomo è sempre stata definita in base al criterio
del “potere” o della “facoltà”, cioè del “poter fare” o dell’incapacità di fare questo o quello»[37]). Bentham,
osserva Derrida, ha avuto l’intuizione fondamentale di avvicinare gli animali
alla zona della rilevanza morale facendo leva sull’unica cosa che, in questo
discorso di potere, nonostante tutto, ci accomuna ad essi: nella vulnerabilità,
infatti, nell’essere-esposti alla
sofferenza, nell’impotenza di fronte
al dolore, l’umano si riconosce, al pari del non-umano, non un potere ma un non-potere. «Nel caso della sofferenza
vulnerabile», scrive perciò Derrida, «il potere è un non-potere; il poter
soffrire è allora il primo potere come non-potere, la prima possibilità come
non-potere che condividiamo con l’animale, da cui deriva la compassione»[38].
L’umano sembra
così poter incontrare il non-umano solo nella zona negativa e preliminare della
sofferenza da evitare. Si lascia perciò totalmente indeterminata la zona
positiva dell’esperienza che si trova al di là del dolore, riducendo l’ideale
etico alla “calcolo” collettivo del piacere/dolore o degli “interessi”
individuali. In questo modo, anzitutto non viene veramente scardinata la logica
specista dell’umano come l’essere-che-può e dell’animale come
essere-che-non-può, ma, anzi, anche l’umano viene ridotto alla “nuda vita”,
all’ animale-macchina sofferente e trattato politicamente in termini di corpo
zoologico[39]. In secondo luogo, in una
visione che trova nell’assenza di dolore il comune denominatore dell’etica, il
concetto qualitativo di bene e di felicità
va perduto in quanto moralmente irrilevante. E, con esso, tutta una sfera
dell’esperienza umana (e non-umana) che potrebbe invece diventare il campo di
indagine su ciò che ci accomuna agli altri animali nelle reciproche differenze.
Diventerebbe allora possibile riformulare la domanda benthamiana trasportandola
nell’orizzonte di creatività e positività anticipato da Nietzsche. L’importante
non è chiedersi “Possono pensare?” o “Possono parlare?” ma “Possono gioire?”[40].
La morale degli schiavi animali
Questo passaggio, sia chiaro, non
può essere compiuto all’interno della
filosofia nietzschiana, che resta ancora, se non in teoria almeno nelle sue
conseguenze pratiche, specista (seppure non antropocentrica). Nietzsche
descrive, infatti, nelle sue opere la traiettoria che porta l’umano a
dissolvere i vincoli che lo chiudono in un’esistenza passiva, indicando così la
parabola dello Űbermensch,
dell’Oltre-uomo[41]. Ma questa ultra-umanità,
che è resa possibile proprio dal riconoscimento della fondamentale «naturalità»
e «animalità» dell’uomo e dal rifiuto di ogni «spiritualismo», non arriva mai a
mettere in discussione le pratiche di violenta sopraffazione del non-umano. Anzi,
giustifica addirittura la sopraffazione dell’umano (il che la qualifica come
non-specista sul piano ideale; seppure il fatto che Nietzsche non ipotizzi in
nessun caso l’abbandono delle pratiche di sfruttamento umano e non-umano[42] ci
permette di definirlo specista in senso materiale[43]).
Nel
descrivere il concetto di amicizia di Nietzsche non ho dunque affatto inteso
discuterne, né tanto meno accettarne acriticamente la filosofia nel suo
complesso. Men che meno la sua filosofia morale che considero problematica
sotto più punti di vista e che andrebbe analizzata con maggiore dettaglio.
Basti qui accennare al fatto che la visione dell’uomo come «animale» sia
inscindibile in Nietzsche da un’interpretazione della vita come «volontà di
potenza», cioè istinto di sopraffazione ed appropriazione[44]. Non
è possibile dimenticare come tutta la filosofia di Nietzsche (al più tardi a
partire da Al di là del bene e del male)
affondi irrimediabilmente le sue radici sul pathos
della distanza[45],
cioè su una visione gerarchica e
aristocratica dell’esistenza[46].
Nonostante la
critica di Nietzsche alla morale dei sentimenti e della compassione sia a
tratti molto acuta, essa rimane insoddisfacente. In particolare, il fatto che
la morale della compassione venga definita da Nietzsche una «morale degli
schiavi»[47], una morale del «risentimento»[48], nel
senso che essa predicherebbe la non-violenza solo perché subisce violenza e non è in grado di esercitare violenza a sua volta, appare errato se lo si confronta
con la prospettiva antispecista. L’antispecismo potrebbe infatti essere definito
l’inveramento della morale degli
schiavi, poiché si esercita non da una posizione di debolezza ma di forza: cioè
quella dei signori umani nei confronti degli schiavi animali. E ciò permette di
dire che non c’è alcun risentimento
nella sua negazione di sé ma, appunto, l’unica
e credibile formulazione di una morale altruistica.
Il rischio di un punto di vista
oltre l’orizzonte
La filosofia, quale solo potrebbe giustificarsi al
cospetto della disperazione, è il tentativo di considerare tutte le cose come
si presenterebbero dal punto di vista della redenzione. La conoscenza non ha
altra luce che non sia quella che emana dalla redenzione sul mondo […]. Si
tratta di stabilire prospettive in cui il mondo si dissesti, si estranei,
riveli le sue fratture e le sue crepe, come apparirà un giorno, deformato e
manchevole, nella luce messianica. Ottenere queste prospettive senza arbitrio e
violenza, dal semplice contatto con gli oggetti, questo, e questo soltanto, è
il compito del pensiero. È la cosa piú semplice di tutte, poiché lo stato attuale
invoca irresistibilmente questa conoscenza […]. Ma è anche l'assolutamente
impossibile, perché presuppone un punto di vista sottratto, sia pure di un
soffio, al cerchio magico dell’esistenza […]. (Th. W. Adorno)[49]
Si profila così la possibilità di
pensare un’amicizia più radicale tra uomo e animale, un’amicizia che si lasci
alle spalle il vecchio sentimentalismo, ma che faccia a sua volta propria la
critica dell’identitarismo, dell’intellettualismo e, ovviamente, dello
specismo. Una zoofilia antispecista,
per quanto paradossale possa sembrare oggi quest’espressione. Un mutamento
profondo del paradigma antispecista che sembra tuttavia a prima vista aprire le
porte ad una deriva irrazionalista. Se si denunciano i “calcoli” utilitaristici
di Singer e l’idea stessa di diritti animali di Regan, cosa resta in mano a chi
vuole combattere lo specismo? Non dovremmo limitarci a concetti “operativi”
che, per quanto imperfetti, potrebbero permetterci nell’immediato di passare
all’azione, senza perdere tempo con tutto questo?
Se però la nostra
preoccupazione è indagare l’origine di un male e di un’ingiustizia, non si può
essere approssimativi o contentarsi di soluzioni di compromesso: ciò che si
pone in continuità col male e con l’ingiusto non fa che riprodurlo. Per quanto
frustrante possa essere nell’immediato, solo individuando la radice dell’ingiustizia è possibile
agire in senso opposto e sperare di combatterla realmente. E questo è
l’interesse della critica radicale dell’identità. La chiusura identitaria è
infatti la radice dell’oppressione dell’altro, senza la cui svalutazione ideale
e materiale essa non potrebbe costituirsi. Ma tale critica è chiaramente pensabile
fino in fondo solo posizionandosi al di
là dell’orizzonte del presente, avvistando il punto di fuga in cui le distinzioni, le leggi e i confini del mondo
attuale si capovolgono e si riorganizzano. Il fatto che il mondo, e la nostra
stessa coscienza, non potrebbero esistere senza riprodurre l’identità non è un
argomento contro il tentativo di pensare altrimenti. Solo pensando la
non-identità, la differenza irriducibile, l’assolutamente altro si possiede un
modello teorico autenticamente in grado di contraddire
l’esistente e le sue chiusure. È questo modello irriducibile alla legge del
presente che Adorno chiamava “utopia” e Derrida “impossibile”[50].
Si tratta di
costrutti teorici che hanno una fondamentale importanza per la prassi, anche se
solo indiretta. Non semplicemente “sogni” di un mondo che non c’è, ma lo
sguardo rivolto al di là del muro del presente, sguardo senza il quale il muro non viene nemmeno visto. Non è infatti
possibile alcuna critica del sistema di dominio se non mettendolo in rapporto
con ciò che dovrebbe trovarsi “fuori” di esso, per quanto tale condizione sia
quasi totalmente inimmaginabile per coloro che si trovano presi nel suo
ingranaggio. Solo l’idea della libertà e dell’uguaglianza senza condizioni ha reso possibile l’abolizione della schiavitù
umana, seppure né la libertà, né l’uguaglianza possano ancora oggi essere
considerati reali(zzati). La liberazione animale non può che basarsi su un’idea
altrettanto radicale in cui i rapporti con le altre specie vengono posti in
modo nuovo fin dal principio, cioè fin dal modo in cui essi si danno al
pensiero. Se ciò non accade, se non si inizia un esercizio di radicale
ripensamento dei nostri rapporti con l’altro, qualsiasi “prassi” sarà destinata
a ricadere nelle contrapposizioni e nelle gerarchizzazioni del passato.
Relativi assoluti
Può dunque esistere un’amicizia
con gli altri animali? E che tipo di amicizia potrebbe essere? Attraverso la
contrapposizione Aristotele/Nietzsche si è cercato di indicare alcune vie per
impostare in modo adeguato questo problema.
Per Aristotele
si è amici nell’identità, nell’uguaglianza, nella razionalità finalizzata alla
contemplazione. Per Nietzsche, al contrario, si è amici nella diversità, nel cambiamento e nella pienezza
della vita. Per Aristotele il
bene che rende possibile e sostiene l’amicizia è la scoperta di un senso che
accomuna. Per Nietzsche, il bene è la creazione
di senso a partire da differenti prospettive
sulla vita. La vita è in se stessa un’esplosione
di prospettive. Il “senso” è il modo in cui ogni singola vita dà forma al
proprio mondo, progetta la propria esistenza. Se si corregge la visione
gerarchica di Nietzsche e si sposta l’accento sul valore in sé della
differenziazione, l’impulso morale potrà essere ridefinito come il rispetto per il percorso irriducibile
dell’altro.
Una rinnovata,
anzi inedita amicizia con gli altri animali non dovrebbe, dunque, essere mossa
dall’istinto all’espansione ma alla coltivazione
della propria e dell’altrui libertà e diversità. Questo è propriamente quel
dire di sì alla vita che Nietzsche ha
inutilmente cercato sulla via della «volontà di potenza». Il fine di una
società umana organizzata secondo il principio della critica dell’identità
potrebbe allora essere meglio immaginato sulla scorta del concetto di pace teorizzato da Adorno. Una
convivenza tra diversi che si appaga e si feconda nella molteplicità: «la pace
è lo stato di differenziazione senza potere, nel quale ciò che è differenziato
reciprocamente partecipa dell’altro»[51].
Ma tutto ciò è
possibile solo concependo l’identità in modo diverso, ovvero come essa stessa già
sempre attraversata dalla non-identità. Solo un’identità spezzata e mancante
può infatti aprirsi all’altro non come un nemico o una forza avversa, ma come
necessario complemento di sé,
lasciandolo tuttavia essere nella sua alterità. Riconoscere la relatività delle
prospettive di vita non significa relativismo,
ma pensare in termini di relazioni. Ognuno
è un punto in movimento, una traiettoria singolare: ciò che le traiettorie sono non dipende dalle loro
caratteristiche intrinseche, bensì dal loro rapporto
reciproco[52]. Lo spazio comune in cui
queste vite singolari si muovono non è uno spazio vuoto, ma il campo fisico
delle loro relazioni, l’ambiente con-vissuto, l’orizzonte della sinfisìa (Acampora[53]) o
della concreatività (Rombach[54]).
È da questo
spazio con-diviso della corporeità che emerge la forma fragile e in divenire di
ciò che i viventi hanno in comune. Non
più un’amicizia in cui ciò che è comune riproduce e raddoppia l’identità
(Aristotele), bensì una philia che
accomuna le differenze (Nietzsche), il luogo vivibile del loro accoglimento. È
questa comunione nella diversità che potrebbe dar voce e senso ad un nuovo
“universalismo” che si spinga al di là della cultura dei diritti, così come
l’abbiamo finora intesa. Si tratta infatti di riformulare – non di abolire –
l’universalismo illuministico sotto almeno tre direttrici ben definite (come
osserva Annamaria Rivera in un suo recente testo[55]).
1) Anzitutto, l’Universale,
inteso come valore vincolante per una comunità, esiste solo in quanto non realizzato, cioè solo come processo, come dinamica storica concreta
in cui siamo presi, che ci coinvolge direttamente e personalmente, non come un
progetto ideologico che si tratta di perpetuare (o allargare) meccanicamente. Un’etica
universale non può dunque che essere sempre, costitutivamente, «un’etica a
venire, mai compiuta del tutto»[56].
2) In secondo
luogo, l’Universale va strutturalmente inteso come universale dell’altro e non invece la bandiera
sotto cui avanza un identitarismo fagocitante; proprio in questo senso andrebbe
inteso il “relativismo” che implica semplicemente il riconoscimento dell’essere
in relazione (appunto reale, corporea, sinfisica, non meramente speculativa o
teorica). È proprio dalla e nella relazione con l’altro che io mi definisco:
ciò che io sono implica l’altro, il suo percorso rispetto alla cui unicità e
salvezza io sono responsabile. Da
quanto detto finora discende il terzo punto.
3) È chiaro,
infatti, che l’Universale di cui si parla in questo caso è fin dall’inizio dalla parte degli oppressi e che,
dunque, non è un gioco a somma zero, o uno sterile esercizio di equilibrismo.
Gli “altri” di cui si parla sono soprattutto gli altri oggetti del dominio, gli
altri che voglio ridurre a me, omogeneizzare nella loro irriducibilità o
annientare nella loro diversità. Non si esalta quindi un immaginario rapporto
paritario/simmetrico ma si chiede di rendere possibile tale rapporto, il che implica la critica del dominio in tutte
le sue forme.
La relatività
della propria prospettiva di vita non è dunque relatività rispetto ad una
verità posta come inaccessibile, bensì rispetto
all’altro che è, quanto me, partecipe della medesima verità: una Vita che è
infinito tessuto di singolarità in divenire. Ogni vita è nella verità, nessuna è la
verità tutt’intera. Ognuno è una singolarità e, in quanto tale, è un assoluto. Il
suo desiderio e la sua felicità si misurano nell’irripetibilità della sua
traiettoria. Che però si compie solo sullo sfondo comune in cui ognuno si muove
e che ci definisce sempre in relazione agli altri che l’attraversano con noi.
L’etica costituirebbe il «risveglio» di
cui parla Derrida e che ci desta alla presenza dell’altro e alla responsabilità
nei confronti del mondo che egli è[57]. E
seppure ciò significa rendere più labile il confine che stabilisce se è «Chou a
sognare di essere una farfalla o se è la farfalla che sogna di essere Chou»
(Lao-Tzu), l’importante, per dirla ancora con Nietzsche, è «mantenere la generalità dei sogni e la
totale comprensibilità reciproca di tutti questi sognatori tra di loro»[58].
Una politica all’altezza di tale aspirazione
etica dovrebbe quanto più possibile orientarsi a questa visione – per quanto
irrappresentabile, per quanto, forse, “visionaria”. L’antispecismo, proprio come
tentativo di pensare questa condivisione dell’essere-diversi nella pienezza del
suo compimento, sovverte le categorie che hanno accompagnato la storia della
civiltà e ci costringe ad un pensiero che ci vuole, paradossalmente ma rigorosamente,
relativi e assoluti.
[1] Friedrich W. Nietzsche, Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, trad. it. di F. Desideri,
in Opere 1870/1881, Newton &
Compton, Roma 1993, IV, §286, p. 1012.
[2] Aristotele, Etica nicomachea, trad. it. di C.
Mazzarelli, Rusconi, Milano 1996, p. 299.
[3] «Sembra,
poi, che sia l’amicizia a tenere insieme le città, ed i legislatori si
preoccupano più di lei che della giustizia: infatti, la concordia sembra essere
qualcosa di simile all’amicizia; ed è questa che essi hanno soprattutto di
mira, ed è la discordia, in quanto una specie di inimicizia, che essi cercano
soprattutto di scacciare. Quando si è amici, non c’è alcun bisogno di
giustizia, mentre, quando si è giusti, c’è ancora bisogno di amicizia». Ibidem.
[4] Ibidem, p. 303.
[5] Ibidem, p. 305.
[6] Si tratta infatti di «fare
il bene senza avere di mira un contraccambio». Ibidem, p. 333.
[7] Ibidem, p. 307.
[8] Ibidem, p. 347 (corsivo mio).
[9] Ibidem, p. 357.
[10] «L’uomo virtuoso […] vuole per se stesso ciò che è
bene e tale gli appare, e lo fa […] e a vantaggio di se stesso (a beneficio
dell’elemento intellettivo che è in
lui, elemento che si ritiene che costituisca ciascuno di noi): e vuole vivere e
conservarsi, e che viva e si conservi soprattutto la parte con cui pensa». Ibidem,
p. 346 (corsivo mio).
[11]
«Quanto si estende il rapporto comunitario, altrettanto si estende l’amicizia,
giacché tanto si estende anche la giustizia. E il proverbio ‘le cose degli
amici sono comuni’ ha ragione, perché l’amicizia consiste in una comunanza». Ibidem, p. 319.
[12] Ibidem, pp. 325-326.
[13] Ibidem, pp. 393 e sgg.
[14] Ibidem.
[15]
Singer rifiuta esplicitamente la necessità di un collegamento tra antispecismo
e «amore» per gli animali. Cfr. Peter
Singer, Liberazione animale,
Saggiatore, Milano 2003, p. 10.
[16] Ralph R. Acampora, Fenomenologia della compassione. Etica
animale e filosofia del corpo, trad. it. di M. Maurizi e M. Filippi, Sonda,
Casale Monferrato 2008, p. 143.
[17] Cfr. le
critiche di Tom Regan alla posizione eco-femminista: Tom Regan, Ecologia
profonda ed ecofemminismo: differenze inconciliabili, in «Etica e animali», II, (2),
autunno1989, pp. 50-57.
[18] Cfr., tra gli altri, Roberto Marchesini, Post-human:verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri,
Torino 2002 e Id., Filosofia postumanista
e antispecismo, «Liberazioni», n. 4, primavera 2011, pp. 20-33.
[19] Cfr. Jacques Derrida, L’animale che, dunque, sono, trad. it. di
M. Zannini, Jaca Book, Milano 2006 e Id., La
bestia e il sovrano. Volume I (2001-2002), trad. it. di G. Carbonelli, Jaca
Book, Milano 2009.
[20] Cfr. R. R. Acampora, Fenomenologia
della compassione, cit.
[21] F. W. Nietzsche, Umano troppo umano, trad. it. di. ?, in Opere 1870/1881, cit., 1, VI, §354, p.
642.
[22] Cfr. R. R. Acampora, Fenomenologia
della compassione, cit., pp. 114-140.
[23] F. W. Nietzsche, Umano,
troppo umano, cit., 1, VI, §376, p. 647.
[24]
Accettando dunque il paradosso che se si decostruisce il soggetto non è più
possibile “avere” una volontà. La volontà non è un atto che deriva da un
soggetto, semmai è il soggetto che è il prodotto di una volontà. «Solo la
seduzione del linguaggio […] intende e fraintende ogni agire come condizionato
da un agente, da un “soggetto”». F. W. Nietzsche, Genealogia della morale, trad. it. di Vanda Perretta, in Opere 1882/1895, Newton & Compton,
Roma 1993, p. 597.
[25] Jacques Derrida, Politiche dell’amicizia, trad. it. di G.
Chiurazzi, Raffaello Cortina, Milano 1994.
[26] «Il fatto che dobbiamo divenire estranei è la legge sopra di noi: ma proprio per questo
dobbiamo divenire anche più degni di noi».
F. W. Nietzsche, La gaia scienza,
trad. it. di ?, in Opere 1882/1895, cit.,
IV, §279, p. 146.
[27] Ibidem, I, §14,
p. 72.
[28] F. W. Nietzsche, Così
parlò Zarathustra, trad. it. di A. M. Carpi, in Opere 1882/1895, cit., «Dell’amore
del prossimo», p. 261.
[29] Ibidem, p. 262.
[30] J. Derrida, La bestia e il sovrano. Volume I, cit.,
p. 146.
[31] F. W. Nietzsche, Così
parlò Zarathustra, cit., p. 259.
[32] F. W. Nietzsche, Umano,
troppo umano, cit., 1, VI, §376, p. 647.
[33] «Esiste, probabilmente, una curva, una traiettoria
stellare immensa e invisibile di cui le nostre strade e mete tanto diverse
possono costituire piccoli tratti: eleviamoci a questo pensiero! Ma la nostra
vita è troppo breve e la nostra vista troppo scarsa perché possiamo essere più
che amici nel senso di quella sublime possibilità. Crediamo dunque nella nostra amicizia stellare anche se sulla
terra, dovessimo essere nemici». F. W. Nietzsche, La gaia scienza, cit., IV, p. 146.
[34] «Ogni felicità sulla terra/ O amici, la dà la
battaglia!/ Sì, per diventare amici,/ ci vuole il fumo delle polveri!». Ibidem, §41 («Eraclitismo»), «
“Scherzo, perfidia e vendetta”. Preludio in rime tedesche», p. 58.
[35] F. W. Nietzsche, Umano, troppo umano, cit., 1, IX, §499, p. 678.
[36]
Jeremy Bentham, Introduzione ai principi
della morale e della legislazione, a cura di E. Lecaldano, UTET, Torino
1998, p. 422n.
[37] J.
Derrida, La bestia e il sovrano. Volume II (2002-2003), Jaca Book, Milano 2010, pp. 313-314.
[38] Ibidem.
[39] Come
osserva Ermanno Castanò, in questa strategia di “animalizzazione” dell’uomo c’è
perfetta coincidenza tra Bentham amico degli animali e Bentham pensatore del
Panopticon. Cfr. Ermanno Castanò, Ecologia
e potere. Un saggio su Murray Bookchin, Mimesis, Milano 2011, p. 51.
[40]
Anche Bentham parla della «felicità» che possiamo condividere con gli altri
animali, attraverso quella che chiama «benevolenza positiva». J. Bentham, Deontology
or, The Science of Morality, Elibron Classics, s.l. 2005, pp. 13 e sgg. Tale
felicità viene tuttavia descritta come puro «possesso del piacere con
l’esclusione della sofferenza» (ibidem,
p. 17), una concezione troppo limitata che lo stesso utilitarismo di Singer
(detto «utilitarismo della preferenza») ha dovuto criticare, osservando come
nella felicità rientri necessariamente un criterio di valutazione soggettivo di
ciò che costituisce “piacere” o “dispiacere”. Cfr. P. Singer, Etica pratica,
trad. it. di G. Ferranti, Liguori, Napoli 1989.
[41] Il rapporto di amicizia è, tra l’altro, importante
proprio perché esso ci permette di misurare il passo che compiamo nei nostri
tentativi di superare l’umano in direzione dell’oltre-umano. Cfr. Il concetto di amico come
«presentimento del superuomo» in F. W. Nietzsche, Zarathustra, cit., p. 261. Cfr.
anche ibidem, p. 259.
[42] La
critica alla domesticazione animale (ad es. F. W. Nietzsche, Al di là del bene e del male, trad. it.
di S. Bortoli Cappelletto, in Opere
1882/1895, cit., p. 546 e Id., Il
crepuscolo degli idoli, trad. it. di M. Ulivieri, in Opere 1882/1895, cit., pp.
728-730) è rivolta all’indebolimento che esso provoca rispetto alla potenza
vitale ed è solo un modo per criticare l’effetto di decadenza vitale prodotto
dalla civiltà sull’uomo (Id., Genealogia
della morale, cit., p. 596). Il modello animale preferito da Nietzsche è
infatti quello «predatorio»: per lo stesso motivo Nietzsche critica il
vegetarismo: cfr. ad es., Id., La gaia
scienza, cit., III, 145, p.
127.
[43] Per
la distinzione tra specismo in senso ideale (ideologia) e in senso materiale
(prassi) cfr. Marco Maurizi, Cos’è
l’antispecismo?, http://www.liberazioni.org/articoli/MauriziM-06.htm.
[44] F. W. Nietzsche, Genealogia della morale, cit., pp. 541 e
sgg.
[45] F.
W. Nietzsche, Al di là del bene e del
male, cit., p. 541; F. W.
Nietzsche, Genealogia della morale,
cit., p. 587 e passim.
[46]
Sulla tendenza di alcuni autori di sinistra (Foucault, Deleuze) a dimenticare
troppo facilmente questo fatto cfr. Jan Rehmann, I nietzscheani di sinistra, Odradek, Roma 2009.
[47] F. W. Nietzsche, Al di là del bene e del male, cit., p.
543.
[48] F. W. Nietzsche, Genealogia della morale, cit., p. 593.
[49] Theodor W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita
offesa, trad. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1994, p. 304.
[50] Le
riflessioni condotte in questo articolo devono molto all’indagine condotta in
Jacques Derrida, Politiche dell’amicizia,
cit.
[52] In
tal senso, l’antispecismo potrebbe rendere definitivo il passaggio da un
pensiero statico, che vede nella realtà solo «sostanze», ad un pensiero
dinamico, che interpreta la realtà come esito di una serie di «rapporti». Cfr. Ernst Cassirer Sostanza e Funzione. Ricerche sui problemi fondamentali della critica
della conoscenza, La Nuova Italia, Firenze
1999 e Heinrich Rombach, Substanz,
System, Struktur. Die Ontologie des Funktionalismus und der
philosophische Hintergrund der modernen Wissenschaft, Karl Alber, Freiburg/München 1981.
[53] R. R. Acampora, Fenomenologia della compassione, cit.
[54] H. Rombach, Der Ursprung:
Philosophie der Konkreativität von Mensch und Natur, Rombach Verlag, Freiburg
1994. Le potenzialità di critica all’antropocentrismo di questo
filone dell’ontologia sono ancora da sviluppare.
[55] Annamaria Rivera, La bella, la bestia e l’umano. Sessismo e razzismo senza escludere lo
specismo, Diesse, Roma 2010, pp. 145 e sgg.
[56] E. Castanò, Ecologia e potere, cit., p. 131.
[57] J.
Derrida, La bestia e il sovrano. Volume
II, cit., pp. 133 e sgg. Cfr. anche Id., Ogni volta unica, la fine del mondo, Jaca Book, Milano 2005.
[58] F.
W. Nietzsche, La gaia scienza, cit.,
I, §54, p. 88.
Un animale per amico?
RispondiEliminaSì che è possibile.
È anche necessario per iniziare a cambiare il nostro rapporto con la natura.
L'unica redenzione che ci resta.