Di solito mi tocca difendere
Adorno da chi pensa che non fosse sufficientemente “trascendentale”
(husserliani) o “pensatore dell’Essere” (heideggeriani) oppure che fosse troppo
“hegeliano-dialettico-storicista-blabla” (nietzchiani/foucaultiani/deleuziani
ecc.). Oggi mi ritocca la vecchia, ma mai sopita polemica sul carattere
“irrazionalistico” del suo pensiero con tutte le conseguenze anche pratiche
circa la sua spendibilità politica oggi. In una recente discussione sulla Dialettica dell’illuminismo, infatti,
sono state fatte delle osservazioni critiche di questo tipo, osservazioni che
ho trovato inefficaci al pari se non più di quelle or ora citate e, mi duole
dirlo, altrettanto poco calzanti da apparire pretestuose anch’esse.
In tutti questi casi, non si
tratta, secondo me, di mala fede ma, molto più
banalmente, di una lettura che è avvenuta non cercando dall’interno di aprirsi un varco nelle
difficoltà teoriche di Adorno & Horkheimer, mostrandone eventuali limiti,
bensì dall’esterno, applicando al
libro e agli autori concetti e giudizi maturati altrove. L’effetto di questo
tipo di critica trascendente, tuttavia, è non solo sterile e inefficace, ma del
tutto incapace di leggere ciò che si trova davanti. E questo vale sia per le
critiche “teoretiche” che per quelle “politiche” che in questo seminario sono
state portate avanti.
1) Presunti limiti teorici
“Si
tratterebbe di salvare la scienza vivente da quella filosofia che ne è stata
ricavata e che la tiene al guinzaglio” (T.W. Adorno, Scritti sociologici, p. 294)
Da un punto di vista teorico si è
cercato di mostrare che A&H avrebbero una concezione “inadeguata” della scienza e che questa errata concezione
giustificherebbe i loro giudizio negativo
su di essa. La seguente citazione tratta dal primo capitolo dell’opera
(“Concetto di illuminismo”) incentrata sull’idea di “sistema” (cioè sul
predominio dell’ “universale” sul particolare) è stata addotta come prova:
L’illuminismo riconosce a priori come
essere ed accadere, solo ciò che si lascia ridurre a unità; il suo ideale è il
sistema, da cui si deduce tutto e ogni cosa. In ciò non si distinguono le sue
versioni razionalistica ed empiristica. Anche se le varie scuole potevano
interpretare diversamente gli assiomi, la struttura unitaria era sempre la
stessa (Adorno-Horkheimer, Dialettica
dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1997, p. 15).
A ciò si è contestato: l’idea che la scienza procederebbe in modo sistematico, si è giudicata obsoleta la centralità attribuita al metodo “induttivo” e sono state fatte osservazioni critiche sull’uso impreciso della terminologia (ad es. l’espressione “assioma”). Alla posizione di A&H si è poi opposto l’idea che la scienza non proceda in questo modo ma costruisca i propri oggetti attraverso una dissoluzione del dato immediato dell’intuizione (e questo è il buon Bachelard, più che il pessimo Althusser).
Cosa c’è di sbagliato in questa
ricostruzione? Tutto. A&H non dicono
ciò che gli si vuole far dire e dicono
quello che si afferma non dicono. Come è stato fatto osservare nel corso della
discussione, c’è in questa critica uno sconfinamento indebito dal piano socio-economico dell’opera ad un
astratto piano epistemologico che non
solo falsa totalmente il discorso di A&H ma che, assolutizzato in questa
forma, rischia di far scivolare il discorso su una pericolosa concezione idealistica
del rapporto tra scienza e società. La Dialettica
dell’illuminismo, come affermano gli autori nella Premessa (pp. 3-9), nasce
come tentativo di comprendere la crisi in atto (distruzione fascista dei
sistemi liberali, accentramento violento del potere economico e politico, irrigidimento stalinista
dell’URSS e del movimento operaio internazionale, ecc. ) con gli strumenti
messi a disposizione del pensiero dalla divisione
del lavoro scientifico. La scelta di abbandonare questo tentativo iniziale
e di limitarsi ad un’esposizione frammentaria è dovuto proprio al
riconoscimento che questa divisione del lavoro è uno degli aspetti della crisi,
il paradosso di una razionalità che tanto più diventa potente nella sua
capacità di parcellizzare il reale e di controllare gli effetti del suo sapere,
quanto più diventa impotente rispetto ai processi sociali di cui essa stessa è
attrice. Se esiste la possibilità di comprendere cosa accade nella società,
dove sta andando la realtà sociale, cioè se è possibile una forma di autoriflessione delle pratiche sociali,
tale possibilità non solo non è emersa dalla prassi in senso lato scientifica
dell’epoca (incluse le scienze sociali e gli attori potenzialmente critici
rispetto alle dinamiche del capitale: il movimento operaio, la sua classe
dirigente e i suoi intellettuali “organici”) ma, anzi, ha fallito miseramente
il colpo rispetto alle tendenze in atto. In tal senso, la razionalità sociale
gira a vuoto, è veramente un processo-senza-s/oggetto, mera risultante di
processi separati e ciechi, perfettamente funzionanti in sé ma che non
producono alcuna funzionalità nel tutto, anzi semmai l’opposto. Questa è il nodo che interessa gli
autori. La scienza, anzi le scienze
(incluse le scienze sociali), sono prassi
sociali che a differenza di altre hanno la pretesa di avere come fine
proprio il sapere. Che tali prassi
abbiano contribuito direttamente o indirettamente alla disumanizzazione e alla
barbarie (aumento della capacità di sfruttamento del lavoro umano da parte del
potere economico e della capacità di controllo e di distruzione da parte di
quello politico) è il minimo. Il problema è che nel perseguire un sapere
socialmente neutrale, la scienza diviene elemento indispensabile dell’ordine sociale
(totalitario) proprio in quanto incapace di trascenderlo e di criticarlo;
di più: divenendo misura di controllo del sapere come tale a partire dalla
propria efficacia pratica, mette sulla difensiva e alla fine esautora ogni
sapere che si sottrae a criteri di verifica e controllo “scientifici” sia in
modo implicito (maggiore rilevanza sociale - il che significa anche disponibilità
economica di fondi per la ricerca - data alle discipline tecnico-scientifiche
rispetto ai saperi classificati in toto
come “umanistici”..conseguente perdente tentativo di tali saperi di darsi una
“verniciata” di scientificità per garantirsi la sopravvivenza) che esplicito
(attacco diretto e ideologico dell’empirismo logico ad ogni altro sapere bollato
come “metafisico”).
Parlare della scienza su un piano meramente epistemologico è sbagliato e
idealistico perché pretende di parlare di una prassi sociale come se fosse un
semplice atteggiamento del pensiero, ignorando totalmente la questione centrale
della divisione del lavoro (intellettuale) e delle sue conseguenze
nell’organizzazione e produzione del sapere, nonché nella capacità di
autoriflessione critica delle prassi conoscitive in generale. Il ruolo che
svolge la scienza in una compagine sociale non è astorico e invariante, ma
dipende dalla costellazione sociale in cui agisce. Inoltre bisogna comprendere
la ricaduta che il suo prestigio sociale ed economico ha rispetto ad altre
prassi discorsive o poietiche, come la cultura umanistica, le scienze sociali, la
filosofia e l’arte.
Affrontare il tema in termini
epistemologici scivola nell’idealismo sociale anche perché non vede come la
centralità ancora oggi assegnata al sapere “scientifico” è legata alla sua
efficacia predittiva, non alla complessità o innovatività delle sue strutture
discorsive (il che significa, tra l’altro, vedi ad es. l’imporsi di tendenze
tecnocratiche in discipline a vocazione umanistica come la pedagogia, che
l’approvazione e l’influenza sociale arride non a ciò che è in sé scientifico
ma ai discorsi che si danno un’apparenza di sapere “scientifico”). Per quanto epistemologicamente
obsolete possano essere le distinzioni tra soggetto e oggetto, tra fatti e
teoria, tra esperienza empirica e costruzione logica, è ancora e sempre la
possibilità di dominio e controllo della dimensione empirico-fattuale, di
sussunzione del particolare alla legge, della sistematicità delle conclusioni
ciò che conferisce alla scienza la sua centralità nell’attuale compagine
socio-economica. Nella citazione della Dialettica
dell’illuminismo incriminata, infatti, non si parla di “scienza” ma di
“Illuminismo” che è la costellazione storico-sociale in cui la scienza svolge il suo ruolo: i concetti di “illuminismo”
e “verità” cui il libro allude, scrivono A&H, “vanno intesi non solo nel
senso della ‘storia della cultura’, ma anche in senso reale. Come l’illuminismo
esprime il movimento reale della società borghese nel suo complesso sotto al
specie delle sue idee, incarnate in persone e istituzioni, così la verità non è
solo la coscienza razionale, ma anche la sua configurazione nella realtà” (p.
6). Non vedere questo significa parlare di una scienza “ideale” che sta al di
sopra delle pratiche sociali, cioè di un’astrazione questa sì ideologica. Il
carattere di sistema della scienza
emerge solo e soltanto da tale funzione dentro il tutto sociale che si erge a
sistema non solo tramite la sintesi operata dal capitale e dalla merce ma anche
dal diffondersi della razionalità strumentale (la weberiana “gabbia d’acciaio”):
oggi le pratiche sociali possono giustificare la propria razionalità quasi
esclusivamente in termini di efficacia tecnica. Non solo la scienza, anzi le
scienze, non possono da sole spezzare la sintesi sociale del capitale e dare ad
esse una diversa configurazione ma ne rafforzano il potere se, come accade, svolgono
una funzione oggettiva e inconsapevole: esautorare ogni altra prassi discorsiva
assimilandosela o schiacciandola nel cono d’ombra dell’irrazionalità. È questa
l’alternativa fatale che va fatta saltare e a cui lavorano A&H. Dire che la
scienza non ha a che fare con l’empirico, significa non vedere la centralità
che ancora e sempre ha la funzione predittiva del sapere scientifico che è per
altro il pane quotidiano per qualsiasi ricercatore sul campo. L’esempio che è
stato scelto nella discussione per mostrare che la scienza procede in modo
diverso da quanto credono A&H – la matematica – è stato alquanto forzato. A
prescindere dallo statuto epistemologico della matematica (se sia una scienza e
in che senso lo sia) è ovvio che non può funzionare da “modello” dell’operare
scientifico come tale perché una parte importante della ricerca scientifica (la
definizione, misurazione e controllo dei “fatti”) non rientra tra i suoi
elementi costitutivi. Semmai, occorre chiedersi se la capacità di astrazione
della matematica dal dato immediato della percezione non vada regolarmente a
vantaggio della capacità di misurazione e controllo da parte dell’apparato
tecno-scientifico. La libertà di astrazione dal fattuale torna a stringere da
vicino il fatto quando tra i mondi intellegibili in cui si muove la matematica
viene estratto quello più adatto a rivestire il dato empirico che si sta
osservando (a ciò fanno riferimento A&H quando scrivono: “la natura è prima
e dopo la teoria dei quanti ciò che bisogna concepire in termini matematici”,
p. 32).
Con il che non si vuol “relativizzare”
sociologicamente la scienza e renderla mera
funzione del capitale. Al contrario, è proprio la sua indipendenza dalla
vita sociale a garantirle prestigio e vitalità.
Un’indipendenza materialmente fittizia perché le scienze sono pratiche
sociali come le altre che vivono del processo di riproduzione del capitale. Ma “simbolicamente”
reale, nel senso che la scienza diviene fattore produttivo proprio
estraniandosi dal contesto sociale come attività teorica, autonoma, chiusa in
se stessa, e che rifiuta per principio quell’orizzonte di intuizioni
pre-scientifiche, quel senso comune che Husserl chiama Mondo-della-vita da cui
pure deriva. È la neutralità ed
extra-socialità della scienza a servire oggettivamente gli interessi del
capitale e della società eretta a sua immagine.
Il piano epistemologico del
discorso, che certo è importante, non viene affrontato da A&H se non di
striscio ma, per l’appunto, non nei luoghi che sono stati citati. Piuttosto
essi toccano la questione quando trattano della ragione e della funzione
essenziale della divisione del lavoro. Quando A&H scrivono “Con la netta
separazione di scienza e poesia la divisione del lavoro, già operata per loro
mezzo si estende al linguaggio. Come segno, la parola passa alla scienza; come
suono, come immagine, come parola vera e propria, viene ripartita fra le varie
arti […]. Come segno, il linguaggio deve limitarsi ad essere calcolo; per
conoscere la natura, deve abdicare alla pretesa di somigliarle. Come immagine,
deve limitarsi ad essere copia: per essere interamente natura, abdicare alla
pretesa di conoscerla” (Ddi, p. 25). Ciò che dicono della funzione essenziale del
sapere scientifico è perfettamente in linea con le concezioni più avanzate che
vedono nella scienza la costruzione di un linguaggio artificiale che in tanto
modellizza la realtà in quanto si sottrae alla presa antropomorfa e confusiva
dell’esperienza ingenua. Per altro, sia detto per inciso, Adorno e Horkheimer
non intendono affatto criticare la divisione del lavoro intellettuale (si
possono citare migliaia di passi in cui criticano come romantica l’idea di
un’unità del sapere[1]; così
come contro Bergson, l’idea di un’intuizione che dovrebbe accedere all’immediatezza
della vita contro la costruzione concettuale “reificante”; c’è addirittura una
concezione positiva dell’alienazione
e della reificazione in Dialettica
negativa ecc.) ma solo puntare il dito sulle sue conseguenze nella misura
in cui esso rende più difficile e addirittura sospende la capacità di giudizio sugli effetti sociali indiretti del sapere.
Un sapere che rinuncia a fare questo non può essere definito razionale: l’aver
tentato questa mossa, pur nella difficoltà insormontabile del tentativo, è
stata la grande scommessa di A&H sulle possibilità della ragione di
criticare se stessa senza denunciarsi o cancellarsi come tale.
2) Presunti limiti “politici”
I presunti limiti politici della
Scuola di Francoforte sono famigerati. Tradizionalmente vengono fatte due
obiezioni (per altro non necessariamente coerenti tra loro, anzi): l’aver perso
il contatto con il movimento operaio e/o l’aver rifiutato il collegamento con
la contestazione studentesca degli anni ’60. Durante il seminario si è andati
più vicini alla prima classica accusa (intellettuali che contemplano con orrore
un mondo chiuso e bloccato perché non vedono più il conflitto di classe
all’opera e quindi disperano di trovare un aggancio pratico alla propria
critica) visto che anzi si è anzi sostenuto che A&H sarebbero stati contigui
(almeno teoricamente) proprio a quella sinistra contestataria che a partire
dagli anni ’60 ha progressivamente smarrito il riferimento alle lotte operaie.
Prima di affrontare questo punto vorrei proprio contestare il fatto che gli
autori abbiano smarrito questo riferimento alla lotta di classe. Ciò può essere
vero solo da un punto di vista “pragmatico”, nel senso che l’Istituto per la
Ricerca Sociale di Francoforte che negli anni ’20 era sicuramente contiguo al
mondo del lavoro e svolgeva ricerche (prima storico-archivistiche, poi
sociologiche) a stretto contatto con le organizzazioni dei lavoratori, al più
tardi a partire dagli anni della guerra si è progressivamente resa autonoma
(anche grazie a finanziamenti privati: vedi le ricerche sul pregiudizio
sponsorizzate dalla Fondazione Rockefeller). I suoi membri principali hanno
progressivamente perso fiducia nella capacità delle organizzazioni politiche e
sindacali dei lavoratori di criticare e sovvertire l’esistente e, in questo senso, possono essere fatti
rientrare tra coloro che hanno parlato di una generica “integrazione” della
classe operaia nel sistema capitalistico. Ma ciò va inteso cum grano salis. Anzitutto, il giudizio dei francofortesi verteva
sulle organizzazioni di
rappresentanza politica e sindacale dei lavoratori e quindi sulla capacità di queste organizzazioni di sostenere la
lotta di classe. Poiché, come noto, il movimento operaio a livello
internazionale era dominato dalla tendenza stalinista, mi riesce personalmente
difficile ritenere politicamente sbagliato questo giudizio. Ma se uno vuole
sostenere che lo stalinismo rappresentava effettivamente gli interessi dei
lavoratori lo può fare tranquillamente e in tal caso avrebbe ragione a
criticare A&H. Diverso sarebbe il discorso se A&H avessero sostenuto
che l’integrazione della classe operaia avvenuta per mezzo delle sue
organizzazioni burocraticamente degenerate (e l’elevazione dello standard di
vita medio nei paesi occidentali) avesse fatto fuori definitivamente la lotta
di classe. E questo non solo non lo hanno mai sostenuto ma hanno anzi sempre
ribadito il contrario. Almeno Adorno. In Adorno si trovano tantissimi punti
critici contro la teoria della cosiddetta “integrazione” della classe operaia
come tale: si leggano i due saggi “Tardocapitalismo o Società Industriale?” e
“Osservazioni sul conflitto sociale oggi” (raccolte negli Scritti sociologici) per accertarsi della persistenza delle
categorie marxiane in Adorno. in “Osservazioni sul conflitto sociale oggi”
viene anche criticata la nozione formale di “conflitto sociale” come
espressione che non rende conto della specificità e inevitabilità della “lotta
di classe”. Tra l’altro, Adorno inverte i termini della questione perché fa
dell’integrazione (cioè dell’istituzionalizzazione della lotta di classe e
degli organismi sindacali e politici che se ne fanno espressione) una delle
cause dell’uso politicamente ambiguo dell’espressione “conflitto sociale”. Che
poi Adorno non avesse molta speranza nel fatto che la lotta di classe in atto
in quel periodo potessero modificare l’assetto planetario, beh, magari era uno
“Schwarzseher” (pessimista) ma non mi pare gli si possa dare torto.
Veniamo invece al secondo punto:
i francofortesi lontani dalla classe operaia ma vicini alla Nuova Sinistra e le
sue derive irrazionalistiche. Da quanto detto appare assurda l’accusa che è
stata mossa a questo testo di aver in qualche modo contribuito a questa deriva
“irrazionalista” (se non altro per non averla impedita: da qui la domanda “cosa
farcene di A&H oggi?”). L’assurdità sta nel fatto di attribuire una
qualsiasi responsabilità (e sia pure indiretta o inconsapevole: “è stata letta
come denuncia della razionalità”, “viene citata come un testo di riferimento in
certi ambienti” ecc.) ad un’opera che è stata scritta appositamente per impedire quella deriva irrazionalistica.
Perché non si contano i passi in cui A&H denunciano proprio questo: la
situazione in cui ci troviamo ci costringe a scegliere tra la Scilla dello
scientismo e la Cariddi del neoromanticismo mentre noi smascheriamo la segreta
intesa tra questi fronti. Tutto l’apparato teorico della sinistra
libertaria/roussouiana, dell’ecologismo interclassista e dell’irrazionalismo
(hippy, poi post-moderno e infine cyber/transhuman) deriva direttamente come un
guanto rovesciato dallo stalinismo, dal produttivismo cieco e dal positivismo
della II e della III Internazionale. Non solo non c’era alcun bisogno di
A&H perché esso si producesse ma tutto
ciò che essi hanno scritto era un estremo (disperato?) tentativo di
criticare quelle posizioni per impedire il dilagare, anche a sinistra, del
pensiero reazionario. Dunque, se oggi si pensa di poter compiere il viaggio a
ritroso e, per timore dell’irrazionalismo dilagante mettersi a civettare con lo
scientismo, si farà forse un’operazione culturale originale ma si contribuirà
solo alla cementificazione di ciò che c’è. Perché una cosa è sicura: il potere
dell’apparato tecnico sul pensiero e sulla prassi dell’uomo non è affatto
diminuito da quando uscì la Dialettica
dell’illuminismo, è, anzi, aumentato. E se non si vuole andare alla ricerca
di false cause “culturali”, si dovrebbe cercare in questo aumento del potere
disponente della tecnica le cause del dilagare dell’irrazionalismo che
impotente si agita cercando un’impossibile libertà che potrebbe arrivare solo
attraversando e facendo propria quell’estraneazione di cui ha paura. Esattamente
ciò che chiedevano A&H.
[1]
A questo proposito è importantissimo che si comprenda il rapporto tra la
scienza e le altre pratiche intellettuali, soprattutto l’arte e l’esperienza
estetica: altrimenti si corre il rischio di creare una spaccatura tra scienza e
il calderone indistinto dello pseudo-sapere letterario. Uno dei contributi
fondamentali di Adorno è stato proprio quello di sottolineare questo rapporto
intrinseco tra la scienza, l’arte e la filosofia, tenendo sempre distinti gli
ambiti (è chiaro che Adorno parla prevalentemente delle scienze sociali –
psicologia e sociologia – perché sono quelle di cui ha esperienza diretta). Ma,
per esempio, nel caso della musica contemporanea ha stabilito un chiaro ed
esplicito parallelismo (e criticato anche la pseudomorfosi di tale parallelismo)
tra la fisica contemporanea che si emancipa dalle rappresentazioni intuitive e
la musica radicale del ‘900 che inaugura uno spazio sonoro e relazioni di suoni
“astratti”. In entrambi i casi ha difeso senza mezzi termini lo “specialismo”
che deriva dalla maggiore complessità degli edifici teorici che sottendono le
due discipline.
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