risposta di Pietro Bianchi alla mia difesa di Adorno

Allora, rispondo solo alla prima parte, che è quella che considerava più direttamente il mio intervento al seminario.

Marco dice:

"Per quanto epistemologicamente obsolete possano essere le distinzioni tra soggetto e oggetto, tra fatti e teoria, tra esperienza empirica e costruzione logica, è ancora e sempre la possibilità di dominio e controllo della dimensione empirico-fattuale, di sussunzione del particolare alla legge, della sistematicità delle conclusioni ciò che conferisce alla scienza la sua centralità nell’attuale compagine socio-economica".

Dato che mi viene mossa in più punti l'accusa di proporre una scienza "idealistica" che prescinde dalla sua manifestazione storico-concreta, parto da qui. Ok, il processo di riproduzione delle istituzioni scientifiche avviene all'interno dei rapporti capitalistici. Non è una grande sorpresa. E il fatto che ogni sapere - che dipende in tutto e per tutto dalla riproduzione delle istituzioni di riferimento: università, industria culturale etc. - abbia delle condizioni di possibilità che devono essere compatibili con il contesto economico e sociale nel quale si viene a trovare ha un po' il sapore di una tautologia. Se pensiamo che questo mondo sia organizzato da rapporti sociali di natura capitalistica e la produzione di un sapere avvenga in questo mondo, è evidente che nessuna scienza può pensare di prescindere dalla sua condizione materiale d'esistenza. Proprio perché qui non si sta parlando della scienza ideale ma delle sue concrete condizioni di possibilità sociali, quello che io volevo sottolineare è che questo stesso campo è attraversato da mille conflitti e controtendenze e che vi sono tantissime pratiche scientifiche che non possono in alcun modo essere ridotte alla loro compatibilità con la riproduzione dei rapporti capitalistici.

Se è vero come è vero che il capitale produce un sapere a sua immagine e somiglianza, finalizzato al maggiore sfruttamento del lavoro vivo e alla massima produzione del valore, è anche vero che esistono saperi di cui invece il capitale non sa proprio cosa farsene. Perché semplicemente non gli servono a nulla. Noi dobbiamo partire dal presupposto che nonostante tutto, anche all'interno dei rapporti sociali capitalistici attuali, saperi scientifici di questo tipo vengano prodotti e in quantità tutt'altro che trascurabile. La storia del sapere scientifico - cioè la storia delle istituzioni della tecno-scienza - è piena di momenti dove qualcosa di quest'ordine si è prodotto (non faccio l'elenco, dato che la "smitragliata di nomi" l'avevo fatta durante il seminario). Il capitale tenta in tutti i modi di produrre il *suo* sapere - che è quello del positivismo logico: astrazione e rappresentazione del concreto -, ma una lunga storia di saperi scientifici hanno dimostrato di non andare in quella direzione e anzi di rifuggere totalmente dall'idea della matematica e della logica come strumenti di sussunzione categoriale del concreto. O pensiamo che lì ci sia qualcosa per il quale vale la pena combattere - e che quindi ci siano dei saperi che possano non essere solo meri strumenti della riproduzione dei rapporti capitalistici - o altrimenti possiamo pure dire che tutta la scienza (Cantor e la bomba atomica allo stesso modo), *solo* perché prodotta all'interno della cornice dei rapporti capitalistici di produzione, non possa che farsi strumento della loro riproduzione. Ma mi parrebbe un salto logico indebito. La questione è che vi è una "lotta di classe nella teoria" - per usare una formula del buon Althusser - e che nel dibattito epistemologico che mette di fronte razionalismo e positivismo logico, assiomatica e empirismo si gioca invece una partita fondamentale, che riguarda precisamente il tipo di sapere prodotto dal modo di produzione capitalistico e la possibilità di produrre dei saperi che lo contestino dall'interno del campo epistemologico. Insomma non vi è da parte mia nessuna intenzione di stare "al caldo del lato progressivo del Capitale" nonostante Riccardo Bellofiore mi abbia accusato anche di questo e nonostante mi pareva di essere stato molto chiaro sulla strutturale separazione epistemologica di scienza e capitale.

Marco dice che questa scienza non è stata capace di mettere in discussione la riproduzione di questa società, ma forse il problema sarebbe da capovolgere. Proprio perché il capitalismo organizza la società secondo principi che sono assolutamente irrazionali e anti-scientifici, finisce per produrre un sapere che inibisce la produzione scientifica. Il capitalismo è il più grande ostacolo alla produzione del sapere scientifico. Posso pure essere parzialmente d'accordo col fatto che oggi vi sia una centralità della predittività all'interno dei saperi capitalistici, ma è proprio questo sapere del capitale che deve essere contestato e che il razionalismo scientifico quotidianamente contesta (producendo saperi che sono inutili per la produzione del valore). Per citare ancora il buon Althusser: il sapere che produce il capitale non ha nulla a che vedere con la scienza: è semmai ideologia. Ed è proprio questo il problema. La produzione della scienza, quando è pratica di sottrazione dall'immediatezza dell'intuizione, è la più efficace pratica di contestazione di quel campo ideologico. Ovviamente questo non si deve fermare al piano epistemologico che solo un pazzo potrebbe considerare come esaustivo, ma deve anche investire la riproduzione concreta delle istituzioni scientifiche oltre che dei rapporti sociali tout court. Ma non mi pareva necessario specificarlo visto gli interlocutori che avevo di fronte. Dire che una critica al modo di produzione capitalistico ha bisogno di una teoria della scienza non vuol dire che una teoria della scienza sia sufficiente a elaborare una critica del capitale. Anche perché una teoria della scienza ha bisogno di istituzioni e rapporti sociali che siano in grado di produrla. Quindi nessun idealismo scientifico, ma anzi una continua compenetrazione del piano teorico-epistemologico e di quello storico-sociale.

Tuttavia Marco pare non essere convinto nemmeno di questo: la matematica ai suoi occhi è l'esempio di una pratica che va "inevitabilmente a vantaggio della capacità di misurazione e controllo da parte dell'apparato tecno-scientifico". Pare che per lui sia proprio nell'indole della matematica, quella di "estraniarsi dal contesto sociale come attività teorica, autonoma, chiusa in se stessa, e che rifiuta per principio quell’orizzonte di intuizioni pre-scientifiche, quel senso comune che Husserl chiama Mondo-della-vita da cui pure deriva".  Sarebbe dunque "la neutralità ed extra-socialità della scienza a servire oggettivamente gli interessi del capitale e della società eretta a sua immagine". In una specie di determinismo biunivoco la matematica sarebbe da un lato nella sua essenza figlia del capitalismo e quindi dall'altro compatibile (o persino attivamente partecipe) della sua riproduzione. Per Marco la matematica non può che essere *inevitabilmente* ancella della calcolabilità dell'apparato tecno-scientifico. Qui non solo si compie un'indebita caricatura del sapere matematico ma ci si libera con un'alzata di spalle di due secoli dove la matematica (ma anche la fisica teorica e sperimentale) sono state l'opposto di una pratica di calcolo e misurazione. Non sto qui a fare una nuova "smitragliata" su Cantor e Hilbert, l'assiomatica e le geometrie non euclidee, perché ci porterebbe lontano e temo non riscuoterebbe molto successo, ma credo che bisognerebbe addentrarsi almeno un minimo in questi problemi di epistemologia prima di regalare il sapere matematico al nemico. Mi si obietterà allora che la matematica è un mero sapere analitico, che non aggiunge nulla alla conoscenza del mondo dato ne rimane a distanza, e che proprio nella *forma* del suo pensiero - il fatto di *sottrarsi* dal mondo-della-vita di Husserl - mostri una consonanza d'intenti con l'intelletto separativo a servizio del capitale. Qui ci sarebbero da notare due cose:

la prima è che una tale squalificazione della matematica ridotta a pratica autoreferenziale che può soltanto provare la coerenza interna dei propri artifizi logici è molto simile proprio alle critiche che venivano mosse nei confronti della matematica dalla tradizione del positivismo logico e dal circolo di Vienna (Marco si mostra in questo stranamente alleato dello scientismo empirista più deteriore). La seconda è che le pratiche scientifiche, quando sono degne di questo nome, non solo non prescindono del mondo della vita, ma fanno ben di peggio: questo mondo della vita lo ri-articolano e le ri-mettono continuamente in discussione. Prendiamo ad esempio come la fisica del novecento abbia completamente rivoluzionato l'idea filosofica di tempo. La fisica della relatività così come la meccanica quantistica ci hanno mostrato come fosse possibile descrivere l'universo prescindendo completamente dalla variabile del tempo, ma utilizzando solo i rapporti reciprochi tra gli elementi senza che questi potessero avere un sfondo comune a-priori. Il tempo in questo senso è sì kantiano - non è nelle cose dell'universo ma è semplicemente un'intuizione attiva del soggetto trascendentale - tuttavia il pensiero è in grado di trascenderlo e di poter descrivere l'universo prescindendo completamente dalle forme a-priori kantiane, ma anche dal mondo-della-vita husserliano.

La questione per me cruciale è considerare il sapere scientifico come una delle più grandi ferite narcisistiche inflitte all'uomo: esattamente *il contrario* della hubris del soggetto calcolante che vorrebbe ridurre il mondo ad un oggetto empirico di conoscenza da poter rappresentare secondo schemi logici universali. La scienza è profondamente disumana, ed è per questo che il capitalismo a cui serve un sapere solo per la meschinità dello sfruttamento del lavoro vivo, non sa che farsene. Il problema è che anche l'uomo ne ha paura, ed è per questo tenta in tutti i modi di far finta che non sia mai esistita.

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