NIETZSCHE, MARX, FREUD: SEMINARIO DI (ANTI)FILOSOFIA
Lezione introduttiva del 20/04/2016
Marco Maurizi
F. Nietzsche: il
pensiero come dinamite
L’opera nicciana prende le mosse
dalla filologia. Fin dall’inizio però, e ciò è chiaro già dalle critiche il
giovane studioso ricevette dall’ambiente accademico, l’interesse di Nietzsche
alle lingue e alla cultura classica non era di tipo antiquario e museale, bensì
filosofico e radicale: si trattava di cercare nel pensiero greco la radice dei problemi dell’oggi, cercare
nell’innocenza dello sguardo dei primi pensatori greci le risposte e le movenze
originarie del pensiero occidentale
rispetto ai fondamentali problemi ontologici e morali. Nei primi scritti
nicciani sulla filosofia greca troviamo già un’importante puntualizzazione: i
fisici ionici hanno posto la domanda fondamentale circa l’unità del mondo e il
senso profondo del reale, arrivando con Anassimandro ad un punto di svolta
decisivo laddove si accenna alla possibilità di pensare il finito e la determinazione
come modi di declinazione di un principio che non può essere nominato se non in
forma negativa, come apeiron,
l’in-finito, l’in-determinato. È questa la tentazione suprema del pensiero
occidentale, l’esito di un’esigenza di senso che spinge il pensiero al di là
del molteplice e del divenire in direzione di una sintesi, di un fondamento
posti al di là del molteplice e del divenire stesso. È la tentazione della trascendenza, tentazione cui, secondo
Nietzsche, per primo Eraclito ha saputo resistere. Perché di fronte
all’esigenza del pensiero di tracciare un arco che possa comprendere e
completare la fuggevolezza del reale in una sintesi di senso solo due sono le
strade possibili dopo Anassimandro: accettare questa fuggevolezza come qualcosa
di ultimo e non ulteriormente derivabile, oppure fuggirla per aggrapparsi ad un
fondamento stabile e, inevitabilmente, trascendente. La prima sarà la strada
del Divenire eracliteo, la seconda,
come evidente, dell’Essere di
Parmenide (e, ovviamente, delle Idee platoniche ecc.). Nietzsche è convinto che
solo il primo sguardo sul reale sia in grado di riconoscerne e accettarne la
vera, paradossale struttura di incessante
cambiamento, di trasformazione
continua, di instancabile creazione;
mentre le dottrine dell’Essere e della Trascendenza sono tentativi di
disinnescare lo scandalo del Divenire e di neutralizzare il senso di pericolo e
di terrore che esso produce nell’uomo che si trova gettato in esso. Perché
accettare la dottrina dell’eterno divenire significa non solo che non esiste
alcuna stabile forma, alcun metro universale di misura, alcuna certezza o
schemi oggettivi che possano farsi garante di un senso chiaro, univoco e
affidabile del mondo e dell’esistenza, ma che l’uomo stesso, se non è un
semplice spettatore esterno ma è parte stessa di questo divenire, si trova
coinvolto, trascinato e travolto nella sua dinamica di cambiamento e perde
dunque ogni pretesa ad un’identità fissa. Nel momento stesso in cui riconosce
l’universale fluire delle cose è costretto a riconoscersi e dunque, in certa
misura, a perdersi in esso. In questo
contesto si colloca la nota contrapposizione nicciana tracciata nella Nascita della tragedia tra spirito
apollineo e dionisiaco: tra l’anima greca razionale, controllata, amante della
forma, della bella simmetria, della danza e quella invece irrazionale,
indomita, amante dell’ebrezza, disposta a perdersi orgiasticamente nel Tutto.
Al più tardi a partire dall’illuminismo greco – la stagione sofistica e poi
socratica – il pensiero del divenire e l’atteggiamento propriamente dionisiaco
rispetto alla vita è stato sempre più marginalizzato e soffocato dalla
fissazione verso la razionalità astratta e il dominio delle passioni in vista
di valori trascendenti, in un disperato tentativo di esorcizzare i paradossi e
le contraddizioni insuperabili della Vita.
Il discorso critico di Nietzsche
in questa prima fase sembra pienamente ancorato alla critica della religione e
della metafisica così come si è venuto configurando tra ‘700 e ‘800 nell’ambito
del pensiero illuministico e materialistico. Con un importante distinguo però
che non mancherà di avere conseguenze nell’evoluzione della sua opera. Se il
materialismo intendeva contrapporre alle illusioni religiose e metafisiche
l’idea di un universo meccanicistico, regolato da ferree leggi di causa ed
effetto, evacuato da ogni senso e finalità intrinseche, indifferente all’uomo e
ai suoi valori e speranze, Nietzsche vede nella concezione di Eraclito un
atteggiamento profondamente diverso. La necessità del meccanicismo è, secondo
Nietzsche, malata di tristezza e di pesantezza; in fondo, tradisce un’anima non
dissimile da quella religiosa che pretende criticare. Il divenire ha invece,
come Eraclito insegna, i tratti del gioco
e della leggerezza, la sua incessante
metamorfosi dovrebbe essere accolta con stupore
e meraviglia.
In questo senso, è vero che uno
dei tratti epistemologici fondamentali del pensiero nicciano è lo scetticismo, ma è ben chiaro a Nietzsche
che questo scetticismo che manda all’aria le certezze della metafisica non può
avere l’ultima parola: perché l’ultima parola che interessa Nietzsche non è il
“No”, ma il “Sì”. “Dire sì alla Vita”, al Divenire, ad una realtà intesa come
incessante trasformazione e creazione di forme, è l’atteggiamento che bisogna
sapere imparare ad assumere e la rottura con le forme rassicuranti del sapere
tradizionale, con le malriposte certezze che vorrebbero disinnescare l’abissale
vortice del Divenire per consegnare l’Uomo ad una posizione di stabile
osservatore esterno, è una rottura che non può consumarsi pienamente se
l’accettazione di questa condizione viene sofferta con la tristezza della
perdita piuttosto che con la gioia di una liberazione. La Scienza ha avuto il
compito di liberare l’uomo da una condizione servile rispetto a Dio e alla
Legge ma non per gettarlo nello sconforto del non-senso, quanto piuttosto
tracciandogli la via del superamento di un senso, di una legge e di un valore imposti (è questa la via che porterà
Nietzsche all’Oltre-Uomo e alla “filosofia del meriggio”). D’altro canto, l’età
moderna ha elaborato altrettanti tentativi di fuoriuscire dalla tragicità e
irrazionalità della Vita con risposte semplificatrici: la pretesa oggettività
della Scienza (che vorrebbe restaurare una “verità” assoluta, in un mondo
abbandonato dall’Assoluto) o le spiegazioni piattamente materialistiche
dell’agire umano. Pur accettando la critica illuministica della morale,
infatti, Nietzsche rigetta l’utilitarismo e l’edonismo come forme di
riduzionismo che vorrebbero schiacciare il comportamento dell’uomo su una
presunta legge del “piacere”. A Bentham ed Helvetius[1]
Nietzsche oppone la sua visione tragica della vita con i suoi contrasti
irriducibili, la sua assenza di un ordine certo e armonico. Il dolore, perfino
la crudeltà, sono momenti ineludibili
della Vita che non è dato esorcizzare se si vuole avere il coraggio di
guardarla con occhi disincantati. Il nichilismo,
cioè la condizione in cui l’uomo moderno si viene a trovare dopo la “morte di
Dio”, cioè la perdita di tutti i punti di riferimento assoluti, in termini sia
veritativi che morali, è il punto di passaggio obbligato secondo Nietzsche ma,
appunto, solo un passaggio. L’approdo non può che essere positivo: l’accettazione
del nichilismo come tabula rasa rispetto ad una tradizione che ha tradito e
sfigurato la Vita perché incapace di comprenderla, accettarla ed amarla. L’epoca
moderna non è ancora all’altezza del nichilismo, perché ha ancora paura di
mollare gli ormeggi e liberarsi del suo ingombrante passato: cerca ancora un
senso dove non c’è, cerca ancora Dio invece di farsi essa stessa quel Dio che
cerca. Il nichilismo è ancora la passiva, stanca ripetizione di quel gesto di
rassicurazione verso il caos. Esso va attraversato e superato in direzione dell’Oltre-uomo.
Soffermiamoci quindi ancora
sull’epistemologia nicciana perché lo “smascheramento” delle false certezze e
delle false illusioni coinvolgerà progressivamente non solo la religione e la
metafisica ma anche le speranze legate alle scienze moderne e agli ideali
politici “progressisti” (liberalismo, democrazia, socialismo). Alla “chimica
delle idee” che caratterizza la fase “illuministica” del pensiero di Nietzsche,
infatti, si associa ben presto una “storia naturale del pensiero”, ovvero un
approccio genealogico in grado di
ricostruire i processi sotterranei che hanno portato all’elaborazione e
all’affermazione di verità e valori; si tratta di processi che affondano la
propria dinamica nella realtà biologica e sociale dell’uomo e che sempre più,
massimamente in opere come Genealogia
della morale, fanno saltare le pretese del pensiero di operare in modo
“disinteressato”, “autonomo”, “puro”. Sono sempre i bisogni che nascono dalla
natura profondamente conflittuale della Vita a determinare le caratteristiche
della sfera “spirituale” dell’esistenza umana: solo nella lotta che coinvolge
l’individuo rispetto alle sue paure più profonde e nella lotta che contrappone
gli individui tra loro quelle verità e quei valori si affermano e vengono
giustificati in termini razionali. La coscienza è un derivato dell’inconscio,
la razionalità dell’irrazionale, l’intenzionale dell’non-intenzionale. Nella
sua decostruzione della morale Nietzsche fa crollare ogni pretesa della morale
di fondarsi su se stessa a cominciare dalla stessa illusione di un soggetto morale che agisce in base ad una intenzione.
Solo lo sguardo retrospettivo, dice Nietzsche, può pretendere di cogliere come
un processo unitario e teleologico l’azione dell’uomo: in realtà, osservata al
microscopio dello sguardo disincantato e critico, non c’è alcuna unità né nel
soggetto, né nei processi che portano il soggetto all’azione. Non esiste un
luogo stabile in cui collocare qualcosa come l’intenzione che si realizza nell’atto:
di conseguenza la morale ha la stessa validità scientifica dell’alchimia e
dell’astrologia; può valere solo come forma approssimativa e pre-scientifica di
descrizione della realtà morale.
È proprio il discorso genealogico
di Nietzsche che lo porterà a criticare progressivamente tutti gli ideali che pretendono di imporsi all’Uomo dall’esterno
come tentativi di esorcizzare l’irrazionalità della Vita e di ricondurla a
schemi di comodo. Non solo la religione, ma anche la morale (cristiana, prima,
democratica e socialista, poi) vengono attaccate come forme perverse di difesa dalla vita da parte di chi non è in
grado di sopportarne l’alogicità e amoralità (“quanta verità può sopportare un
uomo?”). I tratti “aristocratici” del pensiero nicciano vengono esemplificati
al meglio nella Genealogia della morale,
laddove si deduce il sorgere degli ideali morali dal rovesciamento di una
condizione originaria di soggezione dei più deboli ad una casta di dominatori
guerrieri. L’ipotesi genealogica di Nietzsche prevede, infatti, che le
espressioni che designano ciò che è morale (bontà, nobiltà, giustizia)
indicassero originariamente non delle qualità astratte ma le caratteristiche
dei membri della casta aristocratica: nel rapporto gerarchico che così si
stabilisce, “buono”, “nobile”, “elevato” designano le proprietà opposte
rispetto a chi è sottomesso e che viene invece qualificato come κακός, “plebeo”
e “inferiore”. È solo nel corso della storia, attraverso l’emergere di una
casta sacerdotale incapace di competere con l’aristocrazia guerriera sul piano
fisico, del coraggio e degli istinti vitali che comincia ad operarsi quel
processo di scorporamento dei valori dai loro portatori e le qualità personali
si tramutano in concetti astratti, trascendenti. È solo in questo stadio
storico che sorge la morale. È chiaro infatti, secondo Nietzsche, che la
condizione originaria della classe aristocratica non può essere definita
“morale” in senso stretto poiché qui non c’è alcuna opposizione tra l’essere e
il dover-essere, tra vita e valore; fa parte dell’essere stesso del nobile il
suo essere-nobile, così come fa tutt’uno con le sue doti personali di guerriero
l’essere buono. Il trasferirsi di queste qualità in una dimensione
trascendente, invece, prepara il terreno al definitivo rovesciamento della
morale: con il Cristianesimo, infatti, si opera un totale stravolgimento dei
valori e le qualità dei servi, degli umili e dei sottomessi vengono glorificate
come qualità morali per antonomasia. È la morale
degli schiavi, la morale del gregge
che si sostituisce alla morale dei
signori. Rientrano in questo orientamento del pensiero nicciano anche le
terrificanti pagine contro la compassione,
da Nietzsche interpretata tout court (in
opposizione al suo maestro Schopenhauer) come effetto di una malattia
dell’anima e, dunque, l’esatto opposto della “virtù” se per virtù si intende,
aristotelicamente, la capacità di auto-perfezionamento, di eccellenza, di “nobiltà”
in pieno accordo con gli istinti vitali, con l’esuberanza della vita stessa.
Nietzsche ritiene che solo questa
angolatura permetta di leggere fenomeni storici diversi come le religioni
monoteiste e il pensiero politico progressista (il liberalismo, il
“parlamentarismo”, la democrazia, il socialismo) come altrettante metamorfosi
della stessa paura della Vita. In ognuna di queste forme è all’opera una
particolare strategia di rifiuto o di aggiramento dell’irrazionalità del reale:
il sentimento e l’esercizio della volontà di potenza non è infatti cosa per tutti, per le masse o “i troppi”,
come dice Nietzsche. Le teorie “democratiche” altro non sono che tentativi
delle anime plebee di instaurare meccanismi di potere a loro immagine e
somiglianza, ovvero forme sociali “rassicuranti”, adatte a personalità deboli,
lontane dagli istinti vitali, incapaci coraggiosi slanci, di forti
coinvolgimenti e di vere grandi imprese. Fin da Umano troppo umano, Nietzsche tenta di salvare l’illuminismo
scorporandolo dal suo portato politico e sociale, dall’idea di “rivoluzione”. Non
è possibile tacere questo aspetto elitario ed esplicitamente anti-democratico
del pensiero nicciano, poiché è parte integrante delle conclusioni più profonde
della sua riflessione. Non è infatti sul piano dell’esplicita analisi politica
che Nietzsche offre gli spunti più radicali. Se, infatti, la sua analisi politica
dello Stato, del potere e della società non si discosta dal classico filone
dell’anarchismo individualistico e
non presenta tratti di originalità (se non appunto nell’accentuare in modo
provocatorio il disprezzo disumano per gli ultimi, fino alle inquietanti formulazioni
dell’Anticristo contro “i deboli e i
malriusciti”), è invece proprio nella sua concezione aristocratica
dell’Oltre-Uomo che si evidenziano le punte più avanzate della sua concezione
“politica” (e che pongono il pensiero nicciano all’estremo opposto del nazismo,
nonostante l’apparente omologia di alcune formulazioni[2]).
Perché l’idea profonda che sta alla base della filosofia di Nietzsche è il
radicale anti-identitarismo, la
celebrazione della differenza e della singolarità come celebrazione della
creatività della vita, della sua potenza ed esuberanza.
Quando Nietzsche parla di
“autosuperamento della morale”, infatti, mira a riguadagnare all’azione umana
un posto specifico nell’eterno divenire delle cose senza cedere alle
tradizionali idee di trascendenza e di “dominio” delle passioni. Se si dà
qualcosa come una “morale” nicciana, essa ha a che fare con la “disciplina dello
stile”, ovvero non di una disciplina imposta da una qualche legge o divinità
esterne. Se la Vita non ha senso e non offre valori trascendenti, ciò è la
condizione di possibilità dell’affermarsi di un senso e di valori in quanto creazione dell’uomo stesso. Solo così
l’uomo può inserirsi pienamente nel gioco del Divenire, nell’incessante
trasformarsi di tutte le cose, nella continua creazione dell’Essere: giocando
l’esistenza stessa come trasformazione e creazione di sé. La “fedeltà alla
terra” di cui parla Zarathustra traccia un movimento che è al tempo stesso di radicamento e di elevazione[3].
L’ideale dell’Oltre-uomo è in tal senso un anti-ideale, cioè al tempo stesso
“ideale” in quanto opposto al fattuale e
negazione dell’ideale in quanto trascendenza rispetto al fattuale, poiché non
pone un valore esterno come fine ma indica un movimento direzionato che sgorga dall’interno,
la spinta verso una trascendenza rispetto
a se stessi, un auto-superamento in direzione dell’espansione vitale, della
“potenza”. L’Oltre-uomo, posto alla fine del percorso che parte dall’animale e
passa attraverso l’uomo, rappresenta una curiosa sintesi tra animalità e
nobiltà, tra istinto e raffinatezza, è l’esito di un processo di “coltivazione”
(se vogliamo sostituire il concetto tradizionale di “autodominio” che sembra
implicare la repressione degli istinti vitali). Uno dei nodi problematici del
pensiero nicciano è proprio questa idea di un auto-trascendimento in cui, una volta soppresso il perno
rappresentato dalla soggettività ormai demolita filosoficamente, non è più
chiaro in cosa consista il sé (l’autos),
il centro, il garante della “continuità” che dovrebbe in qualche modo dare
senso all’intero movimento. A suggello di questa difficoltà stanno i concetti di
amor fati e di “eterno ritorno” che è
forse più facile interpretare come ipotesi ausiliarie nella definizione
dell’Oltre-Uomo, piuttosto che come portati di una vera e propria teoria
cosmologica[4].
Nietzsche immagina che di fronte alla prospettiva di un’eterna ciclicità del
tempo, solo l’Oltre-Uomo non cadrebbe nella disperazione più totale, perché accetterebbe
il proprio destino come qualcosa di attivamente costruito da sé in ogni momento.
È la piena presenza a se stessi in un incessante movimento di trasformazione
che garantisce la possibilità di volere
il proprio destino, nel senso di accettarlo come qualcosa al tempo stesso
ricevuto e fatto.
La “filosofia del meriggio”, la
stagione affermativa dell’Oltre-Uomo, indica il superamento epistemologico dello
scetticismo in direzione del prospettivismo.
La Vita è un’incessante proliferazione di prospettive e punti di vista: in tal
senso, la scrittura aforistica di Nietzsche cerca di rendere a livello testuale
la natura costitutivamente descrittiva, metaforica, affabulatoria del sapere. Non
c’è un “fuori” dalla metafora, perché il sapere stesso è espressione
dell’incessante divenire del reale e tale divenire non ha un doppio fondo, un
fondamento, non c’è alcun “mondo dietro il mondo”. La volontà di potenza come
continua volontà di autocreazione (un perenne smarcarsi rispetto a se stessi,
un costante differimento rispetto all’origine, dirà Derrida) è metaforica nella
sua (non)essenza. A differenza di Schopenhauer che pone la Volontà di vivere
come “essenza”, come l’in-sé, contrapponendola all’inessenza, il fenomeno,
Nietzsche opera una rivalutazione
dell’apparenza: come il Divenire si fonda su se stesso poiché non c’è un
piano del fenomenico che si ponga come derivato rispetto ad un nocciolo
impermanente del reale, così il sapere è sempre e solo descrizione di questo
piano di apparenze rispetto a cui non si dà alcun interno, alcuna oggettività,
alcuna struttura nascosta. La modalità “letteraria” della scrittura filosofica
di Nietzsche non è dunque una diminutio,
una modalità deflettiva rispetto ad una verità che potrebbe configurarsi come
analitica, fredda, oggettiva. L’antitesi tra scienza e letteratura è battuta in
breccia: la filosofia “narra”, piuttosto che “spiegare”, non perché non sia in
grado di elevarsi al rango della scienza ma perché anche la scienza non può che
assestarsi su questo che è l’unico livello in cui il reale si dà (nel doppio
senso del prodursi e dell’essere rappresentato e descritto da chi è coinvolto
nella sua dinamica di trasformazione).
In questo senso l’ideale (im)politico
dell’Oltre-Uomo acquista tutta la sua pregnanza anti-identitaria. Zarathustra
non vuole “discepoli” ma “amici”, compagni di viaggio. Dei discepoli sarebbero
solo “imitatori” ma l’essenza dell’insegnamento di Zarathustra è proprio il
volersi allontanare da un modello prescritto, il rifiuto dell’assimilazione.
Compagni di Zarathustra sarebbero propriamente proprio coloro che seguissero il
suo esempio scegliendo di coltivare la propria
irriducibile singolarità. L’unica forma di comunità che Nietzsche può
accettare, infatti, è quella di individualità che non avessero altro in comune
se non il proprio differire reciproco. Un’amicizia che fosse sempre anche
inimicizia, una vicinanza che nascesse solo dalla lontananza. Per quanto
continui ad essere una comunità di pochi – la “stirpe” degli Oltre-uomini a
venire – è chiaro come questa descrizione di una comunità di singolarità in
divenire, di “sognatori” legati solo dall’appartenenza e dalla fedeltà ai
propri sogni, rappresenti il filo sottile che impedisce a Nietzsche di sprofondare
in un solipsismo senza via d’uscita. La prospettiva nicciana si regge su questo
fragile equilibrio, su una tensione irrisolta tra poli contrapposti, su un’abile
architettura di pesi e contrappesi che minaccia costantemente di cadere nell’abisso su cui paurosamente dondola. E, ovviamente,
nella follia.
Dove ci trascina questa potente brama,
che per noi è più forte di qualsiasi altro desiderio? Perché proprio in quella
direzione, laggiù dove sono fino ad oggi sono tramontati tutti i soli dell’umanità? Si dirà forse un giorno di
noi che, volgendo la prua a occidente,
anche noi speravamo di raggiungere le
Indie – ma che nostro destino fu quello di naufragare nell’infinito? Oppure,
fratelli miei? Oppure?
(F. Nietsche, Aurora,§575)
[1] Al di là
di una certa, innegabile, spocchia tedesca sarebbe interessante confrontare l’ironia
nicciana sull’utilitarismo, e, in generale, sulla rozzezza del pensiero
anglosassone (incluso Darwin), con gli analoghi passi in cui Marx accusa
Bentham di spacciare i bisogni del borghese ingelse medio per bisogni dell’Uomo
come tale.
[2]
Nietzsche non è solo il pensatore indifferente alla sofferenza altrui che nella
Gaia scienza identifica addirittura nella
“tirannia” una prefigurazione dell’individuo ma anche l’apolide, il cittadino d’Europa,
che denunciava la “follia nazionalistica” e vedeva nella compenetrazione tra i
popoli e le culture la vera ricchezza del continente.
[3] In Ecce homo Nietzsche stesso definisce lo Zarathustra il suo libro “più alto” e “più
profondo”.
[4]
In effetti il riferimento alla concezione circolare greca del Tempo costituisce
una pietra di paragone necessaria poiché rappresenta una forma di vita in cui
il senso dell’esistenza e l’agire morale non era intrinsecamente collegato alla
teleologia del tempo storico-lineare, come nella concezione ebraico-cristiana.
Dunque, in assenza di un modello adeguato, la temporalità specifica
dell’Oltre-Uomo non può che commisurarsi con quella pre-cristiana.
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